Avere vent’anni: AUTUMN TEARS – Love Poems for Dying Children, Act III: Winter and the Broken Angel

Billerica, Massachusetts. Un comune di 39.000 anime a poche bracciate da Boston. Non un posto di merda eh, però diciamo che, a parte l’università e le partite dei Red Sox la domenica, non credo ci sia molto da fare. Se poi l’università è finita e non ti piace il baseball, le strade da percorrere son due: drogarti o chiuderti in una di quelle chiesette neogotiche di cui è tempestato il nord degli Stati Uniti, con un organo e una montagna di spartiti polverosi nella borsa, e cominciare a fantasticare sulla futilità dell’esistenza. Ecco, è in un contesto così, o meglio, che mi piace immaginare così, che nascono gli Autumn Tears.
C’è qualcosa di intimo e di mistico che mi lega a questi americani (per chi ha una buona memoria, già citati dal sottoscritto in un breve pezzo sui Dark Sanctuary, ormai più di anno fa). Non so come spiegarvi, mi guardano dentro, vanno a toccare dei punti sensibili, tipo un’agopuntura.
Scoperti per caso sull’ei fu Metal Shock (tra le recensioni alle ultime pagine, quelle dove ci si allontanava per un pochino dal metallo e si andavano ad abbracciare generi tutto sommato limitrofi, tra cui l’ambient, la dark ambient e l’ambient neoclassica, di cui i nostri raffinati musici dalla terra di E.A. Poe sono tra i più validi interpreti), lontani dalle atmosfere satanico/apocalittiche dei più noti Elend, le Lacrime d’Autunno ci confezionano da anni perle di angoscia e romanticismo con una classe e una cura per ogni singolo dettaglio che raramente ho riscontrato altrove, neanche nei migliori Dark Sanctuary, e questo Winter and the Broken Angel, oggi ventenne, non fece eccezione; ultimo atto di una trilogia il cui titolo (Poesie d’amore per bambini morenti) è già di suo tutto un programma.
Ma quanto cazzo devi star male per intitolare un album così? A mio modo di vedere, parecchio. Ma loro di più, loro hanno intitolato così UNA TRILOGIA.
Ragazzi, siam mica qui a fare i depressi della domenica nel giardino di casa nostra, buttati sull’amaca, ripensando a qualche tipa che al liceo non ce l’ha data, con una collezione di riviste porno in mano e un grigio film francese alla TV, no, no, e non siamo neanche lassù, tra le guglie della cattedrale, dissennati, ad alzare inni al Diavolo durante una notte tempesta (agli Elend staranno fischiando le orecchie in questo momento); no, qui siamo di fronte agli aedi dello struggimento interiore, gli Shakespeare della presa a male, i Mozart della decadenza.
Non una nota di tastiera fuori posto, non un falsetto buttato lì tanto per fare i fichi della situazione; qui, ragazzi, la sensazione che si ha durante l’ascolto è quella di stare vivendo una magnifica morte. La più dolce e intima morte possibile. La propria morte? E chi può dirlo (ma grattatevi per sicurezza).
Una volta li stavo ascoltando mentre passeggiavo al parco dietro casa (non era quest’ album, credo fosse The Hallowing, del 2007, peraltro il mio preferito) e improvvisamente assisto alla scena di una cornacchia che viviseziona un topolino di campagna; lì, sotto i miei occhi, a mezzo metro da me. Non so se siete del mio stesso avviso, ma la stessa scena, in un’altra cultura, sarebbe stata considerata una specie di presagio; se ci mettete pure le note degli Autumn Tears di sottofondo, potete immaginare come mi sono sentito.
Citare un brano piuttosto che un altro, ma anche solo continuare a rovinare questo disco con le mie vuote parole, i miei paragoni stupidi o i miei aneddoti di cui non frega un cazzo a nessuno, è un delitto che non mi sento di perpetrare. Ascoltateli, e lasciatevi trasportare nella loro fantastica dimensione. (Gabriele Traversa)