Avere vent’anni: HAMMERFALL – Glory to the Brave

hammerfall

Piero Tola: Quando avevo sedici anni, ero entrato in fissa con gli Hammerfall. Era appena uscito Glory to the Brave e mi ero preso anche la maglia a maniche lunghe, che dovrei avere ancora, tra le altre cose. A meno che mia mamma non ne stia facendo un uso intensivo come straccio da cucina o roba così. Glory to the Brave, dunque, ma anche (seppure molto meno) il successivo Legacy of Kings erano roba gradita durante la mia adolescenza. Tra i meriti di questi due dischi c’è l’avermi rimandato ad altri ascolti ben più importanti, come Warlord o Pretty Maids, grazie alle cover di Child of the Damned e Back to BackGlory to the Brave, però, rispetto al successore era ancora fresco e con un suono genuino, piuttosto lontano dalle contaminazioni farlocche in stile Nuclear Blast che, proprio sul finire del decennio, caratterizzavano puntualmente tutte o quasi le uscite dell’etichetta tetesca, che suonavano tutte uguali a seconda del genere. L’ho ripreso qualche anno fa dopo averlo mollato una volta finita l’adolescenza, e mi sono sorpreso a canticchiare The Dragon Lies Bleeding come se non fossero passati quasi vent’anni dall’ultimo ascolto. Tra l’altro avevo pure il ciddì a forma di seghetto, che dovetti scambiare con uno di forma normale quasi subito, visto che avevo appena comprato un impianto stereo il cui manuale di istruzioni vietava severamente la fruizione di supporti di forma inconsueta.

La riscoperta è stata davvero piacevole, ed il lavoro filologico sul metallo degli anni ottanta è apprezzabile, se non notevole a tratti. Joacim Cans mi era sempre piaciuto per il suo timbro limpido, con registri alti ma mai esagerati – tipo Matos o Kiske, per citarne due a caso. Oscar Dronjak lo ricordavo perché aveva fatto parte, per qualche anno, di una banda death metal che mi piaceva pure: i Ceremonial Oath, che già tradivano un aspetto melodico che volutamente riportava alla decade ottantiana dell’heavy metal epico e melodico per eccellenza. Il passo successivo era quindi piuttosto scontato per il buon Oscar, visto che durante alcune interviste sulla stampa specializzata in musica estrema dell’epoca andava ripetendo che il suo vero amore erano gli Iron Maiden e l’epic metal. Glory to the Brave è un ottimo disco: ad avercene così, oggigiorno. Il merito che ha è soprattutto quello di aver aperto alla mia generazione le porte di quel mondo che oggi viene definito “di culto”, fatto di gruppi che hanno raccolto consensi al limite del fanatismo solo presso una certa parte di pubblico. Per farvi un esempio: recentemente sono stato ad un concerto che celebrava i trent’anni di Mystification dei Manilla Road. Si svolgeva a Varsavia. I biglietti (limitati) erano esauriti già da tempo e, anzi, ho dovuto fare una vera e propria corsa per accaparrarmene almeno due, nel caso qualche amico volesse venire con me. Un delirio. Molti miei coetanei, che sicuramente sono stati introdotti a questo mondo da gruppi come Hammerfall o simili negli anni novanta, erano là, a celebrare il culto di Mark Shelton. Ed è per questo che, pur non seguendo il revival thrash dei tempi recenti, sono ben contento di vedere le nuove leve indossare cartuccere e smanicati ai concerti, andando poi a riscoprirsi i classici, grazie alla nuova ondata piena di richiami e citazioni colte. È un ciclo che si ripropone periodicamente, come fu per me con Glory to the Brave, appunto.

Il problema si pone quando bisogna cercare di fare qualcosa di nuovo. Ed è allora che ci rendiamo conto che probabilmente il nostro è un genere per over trenta nostalgici, e gli anni d’oro non torneranno mai più. E’ un discorso che è stato affrontato su queste stesse pagine da colleghi più abili di me e anche con diverse conclusioni. Spero di sbagliarmi, e non me ne vogliano i lettori più giovani, probabilmente infastiditi (e a ragione) da un discorso “elitista” del solito duro e puro che dice che un tempo qua era tutta campagna e bla bla bla. Ecco, prendete queste poche righe come il delirio di un babbione nostalgico e disfattista.

Trainspotting: Glory to the Brave piombò nella mia vita con la stessa delicatezza di un ippopotamo lanciato dal cavalcavia su una macchina in corsa. Avevo quindici anni ed ero chiaramente uno spirito inquieto, come penso tutti voi che state leggendo; ero già metallaro ma quando la gente mi chiedeva perché fossi metallaro io non sapevo bene cosa rispondere. Ti piacciono i teschi eh? Le cose macabre, mi chiedevano, e io rispondevo di no, perché effettivamente non è che io abbia mai avuto la fascinazione per tutta quella roba. Con Glory to the Brave riuscii a teorizzare il perché io fossi metallaro. Certo ancora in forma embrionale e ingenua, però avevo iniziato a capire. Fino a quel momento avevo esplorato, mentre con gli Hammerfall fu come fermarsi, guardarsi intorno e comprendere che il metallo non mi doveva portare da nessuna parte: esso era il fine, non un mezzo. Sei metallaro, tanto ti basti: tu hai capito. Fu questo il disco fondante del recupero delle sonorità classiche che si ebbe a fine anni novanta: d’accordo che gruppi già famosi come Manowar e Gamma Ray erano tornati sulle scene con dei capolavori, d’accordo che band al debutto o precedentemente misconosciute come Rhapsody, Stratovarius e Blind Guardian esplosero definitivamente, ma nessuno portò il discorso ad un livello così viscerale come gli Hammerfall. Glory to the Brave è un disco sul metallo, composto per glorificarlo e suonato per il gusto di suonare metallo incontaminato come Cristo comanda. I compositori erano due: Jesper Stromblad, leader e anima degli In Flames, che all’epoca erano ancora un gruppo della stramadonna che veniva indicato – giuro – come erede spirituale degli Iron Maiden; e Oskar Dronjak, un tizio brutto che nelle interviste parlava più dei gruppi degli anni ottanta che degli stessi Hammerfall. Qua si vola a livelli talmente alti che almeno in un pezzo (The Metal Age) si coglie l’autentico spirito del vecchio epic metal, cosa che all’epoca praticamente nessuno riusciva a fare; per non parlare della impressionante successione di canzoni talmente perfette e di pompa che riuscirono ad attrarre a questo tipo di suono un’intera generazione di ragazzini che avevano scoperto il concetto di chitarra pesante con Nirvana e Marilyn Manson. Canzoni meravigliose come l’opener Dragon Lies Bleeding, veloce e col doppio pedale ad elicottero come usavano tutti i gruppi power dell’epoca, che fu l’esempio perfetto per chi ancora non riusciva a capire la differenza tra quest’ultimo e il heavy classico. O l’eponima Hammerfall, la cui linea a metal heart is hard to tear apart divenne una delle epigrafi a cui immediatamente pensavo per tirare dritto dopo una di quelle batoste che capitano abbastanza spesso, mannaggia. Poi la cover degli Warlord (degli Warlord!), suonata con un sentimento che non si può definire altrimenti che amore, oppure Unchained, il cui riff iniziale meriterebbe l’istituzione del premio Nobel per il riff. Seriamente, a parte la ballatona I Believe questo è il classico caso in cui nominare una canzone sminuirebbe le altre. Avevo anch’io l’edizione a forma di sega circolare, e ce l’ho ancora, perché fortunatamente il mio stereo riusciva a leggerla senza problemi: magari, un giorno, la si potrà usare come arma contro i nemici del vero metal.

13 commenti

  • Gli Hammerfall ridiedero speranza al Metal classico nella seconda metà degli anni Novanta e anche per noi più attempati (perché mi rendo conto di essere un po’ più grande per lo meno di alcuni di voi e dei 27 lettori) rappresentarono una bella novità.
    Era Heavy Metal della migliore tradizione, pur essendo attuale per l’epoca e nemmeno troppo nostalgico: era più come se avessero deciso di riprendere le fila del discorso ripartendo dalle sonorità fondative del genere. Non a caso furono scelte le cover di “Child of the Damned” degli Warlord e “Ravenlord” degli Stormwich: erano una dichiarazione di intenti, perché era proprio dal più profondo degli anni Ottanta che urgeva ripensare le basi del genere, con la maturità artistica degli anni trascorsi.
    Tra l’altro Oskar è uno dei massimi esperti mondiali di storia e filologia comparata dell’heavy metal e questo fu chiaro fin da subito.

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  • Album E-P-O-C-A-L-E
    Domanda: ma sono l’unico che si gasa di brutto con l’ultimo minuto di Stone Cold?

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  • Mah… Sempre trovato moscio. Un abbraccio a voi tutti!

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  • Chi ascoltava metal già da qualche anno (io come Stefano Mazza faccio parte degli “attempati” o “vecchi di merda”) sa bene quanto questo disco sia stato un faro nel panorama metal del periodo. Finalmente tornava il VERO metallo, si tornava ad alzare i pugni al cielo…Poi arrivò pure “Something wicked this way comes” degli Iced Earth…bei tempi.

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  • Avevo preso la felpa (la felpa????) degli Hammerfall. Oscar era un’esempio da seguire e vederli dal vivo al Gods un’esperienza illuminante. Era fisiologico che non mantenessero le promesse e gli alti livelli di questo disco. Però, almeno a me e a chi come me, suonava la in un gruppo di metal classico a metà anni novanta, sono serviti a darci la speranza che “si.. può… fareeee!!!!!”

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  • MalaPurpleMoon

    Concordo su quasi tutti .. io sono vecchissimo quindi dividendo i miei anni ne faccio due ..
    .. due/tre anni fa ho preso il doppio live con annesso dvd .. quello nell’anfiteatro naturale con laghetto di fronte .. lo consiglio vivamente .. anzi lo consigliano anche i due 25nni che sono in me …

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  • disco seminale ma col senno di poi piuttosto povero musicalmente (con tutto che lo so a memoria). atroci i successivi. ricordo gli hammerfall live nel 1998 a marcon…. spazzati via dai labyrinth (con morby) di spalla

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