Avere vent’anni: DOWN – NOLA
Stefano Greco: Questo originario divertissement è in realtà uno dei dischi più significativi e realmente importanti ad essere usciti negli ultimi vent’anni. NOLA è molto più di un fortunato incidente di percorso, è il responsabile pressoché unico di tutto il metallo barbuto che ascoltiamo oggi e che sembra al momento essere una delle poche filiazioni serie e con ancora qualcosa da dire. Erano anni in cui nel metal si stava avviando una qualche forma (magari discutibile) di rinnovamento che ha coinciso infatti con alcuni dei punti più bassi di svariate band storiche. Nel momento di sua maggiore popolarità, uno dei protagonisti di questo rinnovamento, il cantante del gruppo che tutti copiavano (da Halford a Perotti), si lancia in un’operazione che riesce ad essere contemporaneamente ardita, paracula e lungimirante. Phil Anselmo fa da catalizzatore di umori che nella sua città giravano già da qualche tempo, racimola un po’ di gente del giro sludge ancora in piena fase underground e scrive pezzi con uno dei migliori songwriter in circolazione. Il risultato è un disco di metallo retrò che salta a piè pari il sound del decennio ottanta e va a recuperare il nocciolo del doom americano alla Pentagram e ci carica sopra quella componente Skynyrd-sudista-Mississippi che ne cambia in qualche maniera il codice. Questa è roba che oggi in USA ti vendono un tanto al chilo ma nel ‘95 manco per il cazzo che era così. Su quello che è il valore intrinseco del lavoro ci sarebbe da perderci parecchio tempo, mi limito a dire che Anselmo, Keenan, Windstein e Bower con i rispettivi gruppi hanno tutti scritto pagine eccezionali del metal moderno ma NOLA alla fine è la cosa migliore su cui chiunque di loro abbia messo le mani. Ci sta pure un pezzo che si chiama HAIL THE LEAF, essù dai, non credo ci sia da aggiungere altro.
Ciccio Russo: NOLA fu il disco che fece scoprire il suono di New Orleans, in una veste più accessibile e rifinita (anche rispetto a quello che diventeranno i Down in seguito, un singolone come Stone the crow non lo scriveranno più), al pubblico generalista attratto dalla presenza di un Phil Anselmo in hangover molesto dopo la colossale sbornia di successo di Far Beyond Driven. Come tanti adolescenti dell’epoca in fissa con i Pantera, lo comprai a scatola chiusa non appena uscì, per quanto sapessi appena chi fossero gli Eyehategod e non avessi mai ascoltato una singola nota dei Crowbar. Ovviamente mi piacque molto. Imparai però ad amarlo davvero solo con il tempo e il mutamento di gusti e sensibilità. Non puoi comprendere NOLA a 14 anni. Devi aspettare di avvicinarti all’età che avevano allora i musicisti che ci hanno suonato. Quando ti svegli un giorno e intorno a te ci sono solo bottiglie vuote, posacenere pieni e lettere d’amore strappate. This is one called ‘Losing All’.
Enrico: Don’t regret the rules I broke, when I die bury me in smoke. Se ci pensate, fratelli miei, il senso ultimo dell’essere metallari è tutto qui. Vivere ardendo e non bruciarsi mai, direbbe D’Annunzio. Su NOLA aleggia qualcosa di antico e familiare, una coltre sottile di ricordi persi nel tempo. Cinque amici di lunga data, tra i migliori esponenti della scena southern sludge, si ritrovano al bancone del solito bar e modellano un’ode marcia e maestosa alla città che li ha cullati e dannati. Ogni nota puzza di fango e sudore, di fumo tagliato male e whiskey rancido, di peccato e redenzione. New Orleans mostra il suo vero volto, si spoglia, spalanca le gambe. Strizza l’occhio nella penombra fumosa di un fetido saloon, splendida puttana. La poetica dei Down travalica le vicende umane e artistiche dei singoli componenti, abbracciando un orizzonte di significato molto più ampio. NOLA sublima le originali intenzioni dei suoi autori e diventa il manifesto di uno specifico modo di pensare, vivere e suonare: è l’apologia dei perdenti, dei reietti, di quelli nati troppo tardi che non si pentono e non si arrendono. Le paludi della Louisiana appaiono all’improvviso l’ultimo materno rifugio di un intero mondo disperato e fiero. Chiunque ascolti questa musica, la nostra musica, ha un debito enorme nei confronti di Phil Anselmo, Pepper Keenan, Kirk Windstein, Jimmy Bower e Todd Strange. Gli altri non sanno proprio cosa si perdono.
Non si può pensare a Nola senza avere i brividi.
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Grandi, mi avete fatto scendere la lacrima…come ogni volta che ascolto il bridge di “Eyes of the south”.
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Forse non centra nulla. Ma avete scritto da dio.
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disco semplicemente perfetto che ancora oggi suona fresco e divertente. la sua più grande forza secondo me sta nel fatto che suona esattamente com’è nato, cioè una vera jam disimpegnata tra amici, tutti in stato di grazia tra l’altro!
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Non ho mai capito perchè, ma ogni volta che sento “Stone the Crow” mi suona come fosse stata scritta per essere eseguita dagli Alice in Chains. Le linee vocali sono perfette per L. Staley e le chitarre sembrano uscite dalla testa di Cantrell. Boh, sarà l’influenza del rock sudista…
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Non ci avevo mai pensato ma è verissimo.
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Disco fondamentale più per ciò che rappresenta che per il livello musicale, che comunque è ottimo ma che, a mio avviso, raggiungerà il massimo con Down II e soprattutto con Over The Under. Sul fatto che NOLA sia la cosa migliore sulla quale i musicisti coinvolti abbiano mai messo mano è alquanto discutibile: i primi tre dei Crowbar, i primi due degli Eyehategod, per non parlare dei COC se lo inculano a NOLA
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