Back to the Beginning, ovvero la cosa sbagliata fatta nel modo giusto

Ma quindi, alla fine, com’è stato il Concerto dei Concerti, il più importante evento heavy metal della storia (sic), il Back to the Beginning?

Faccio una premessa doverosa: io non l’ho visto in diretta, essenzialmente per due motivi. Il primo è che quel sabato pomeriggio l’ho trascorso inseguendo il mio figlio maggiore sul litorale laziale, il che rendeva impossibile qualunque altra attività che non fosse urlargli dietro di non gettarsi di testa dagli scogli per evitare di finire la giornata nel più vicino ospedale. Il secondo, un po’ più recondito, è che, dopo la fine dell’emergenza Covid e il conseguente ritorno alla normalità – anche – concertistica, mi sono imposto di non pagare più per assistere a live in streaming, pure quando, come in questo caso, sarebbe l’unico modo per assistervi.

La conseguenza è stata che nei giorni successivi ho recuperato in modo più o meno lecito gran parte dell’evento, seppur a spezzoni, e quindi mi sento abbastanza titolato per azzardare un parere. Se qualcuno di voi tredici lettori l’ha visto tutto in diretta o era addirittura presente in loco, si senta libero di condividere la sua esperienza nei commenti.

E ora veniamo al dunque. Anzi, come si dice al di là della Manica, leviamo l’elefante dalla stanza: il Back to the Beginning per me è stata una cosa sbagliata, fin da principio. Quando il 5 febbraio scorso s’è diffusa la notizia che i Black Sabbath si sarebbero riuniti in formazione originale per un unico e ultimo concerto, lo scetticismo in noialtri di Metal Skunk ha superato l’entusiasmo, anche perché noi l’addio alla band (e che addio!) l’avevamo già dato otto anni prima. Sì, ok, all’epoca mancava Bill Ward, che avrebbe reso quel finale davvero completo, e qui siamo tutti abbastanza grandi da non credere più ciecamente agli annunci di ultimi tour, concerti finali e epitaffi musicali di vario tipo: però nel caso dei Sabbath si parla di gente alla soglia degli ottant’anni e in condizioni fisiche che definire precarie è un eufemismo, quindi, ecco, le lacrime che avevamo versato a Birmingham nel 2017 erano più una questione di sano (almeno lui) realismo piuttosto che di illusione che quel momento fosse davvero la fine di tutto. Un realismo alimentato negli anni successivi dalle notizie sempre più allarmanti sulla salute di Ozzy e dai continui rimandi del suo tour da solista, per poi arrivare all’annuncio impietoso della malattia degenerativa che sembrava mettere la pietra tombale su qualunque prospettiva di rivederlo su un palco. Una prospettiva che rendeva l’indimenticabile concerto del 4 febbraio 2017 la chiusura più giusta, con Tony, Geezer e, soprattutto, Ozzy nella forma migliore possibile, nel contesto migliore possibile, con la scaletta, i suoni e il pubblico migliore possibile, a tributare i meritati onori a quel monicker che per molti di noi ha significato tanto, se non tutto. Il finale migliore, insomma, immortalato in un live album e in un DVD da far vedere ai nipotini ripetendo alla fine di ogni canzone: “Vedete, piccoli miei, il nonno era lì”.
Ma poi ecco, a sorpresa, l’annuncio del “vero” addio dei Black Sabbath, quello definitivo, accompagnati da una line-up stellare che solo la forza contrattuale e mediatica del Clan Osbourne avrebbe potuto mettere insieme.

Nel corso dei mesi seguenti si è plasticamente materializzato quanto il profeta Greco, con la sua smisurata esperienza, aveva subito preconizzato, e cioè che non si sarebbe trattato di un concerto vero e proprio, quanto di una specie di Freddie Mercury Tribute con il Freddie Mercury di turno, e cioè Ozzy, ancora vivo. Per dirla tutta, il Greco, che non fa dell’ottimismo la sua dote migliore, aveva previsto che alla fine sarebbe stato un Ozzy Osbourne Tribute a tutti gli effetti, e quindi che il Madman non ci sarebbe arrivato vivo. Sharon però deve aver siglato un ultimo patto col demonio, perché su quel palco Ozzy, in qualche modo, c’è salito davvero. Sul modo in cui c’è salito, e su quello in cui è stata organizzata la giornata, vale la pena discutere. Perché quel modo, bisogna ammetterlo, è stato il più giusto che si potesse immaginare. Questo fondamentalmente per tre ordini di ragioni:

  1. La location. Non ci sarebbe potuto essere luogo più adatto per ospitare questa celebrazione dell’iconico Villa Park di Birmingham, lo stadio di quell’Aston Villa di cui tutti i Sabbath sono accaniti tifosi (Geezer Butler ne espone orgogliosamente i colori sul suo basso a ogni esibizione), a due passi dal quartiere di Aston in cui i nostri quattro eroi sono nati e cresciuti;
  2. La line-up. Oggettivamente si sono esibiti tutti i gruppi metal al momento più rilevanti (per fama, vendite e nomea) del mondo, con alcune eccezioni pesanti ma non determinati (come ad esempio i Judas Priest, impegnati lo stesso giorno ad Hannover nello show per il sessantennale degli Scorpions ma che comunque hanno omaggiato i Sabbath pubblicando una splendida cover di War Pigs registrata per l’occasione, e gli Iron Maiden, misteriosamente – ma neanche tanto, considerati i non proprio idilliaci trascorsi tra Sharon e Bruce Dickinson – non pervenuti). Spicca la pressoché totale assenza di gruppi europei, eccezion fatta per i Rival Sons e i Gojira, ma forse questo è un sintomo della situazione attuale della scena heavy mainstream (quella, per intenderci, che riempie gli stadi) del Vecchio Continente. La scaletta della giornata è stata poi costruita nel modo più intelligente possibile nella prospettiva di rendere il tutto una sorta di omaggio collettivo, con ogni gruppo a suonare almeno una cover dei Black Sabbath oltre a, chi più chi meno, propri pezzi;
  3. L’intento benefico. Sì, lo sto che voi state sogghignando beffardamente, ma mia mamma da piccolo mi diceva sempre di non accettare caramelle dagli sconosciuti e di credere a ogni parola pronunciata da Tony Iommi, quindi se Tony Iommi ha detto che tutti i proventi dell’evento sono stati destinati a due istituti pediatrici di Birmingham e alla ricerca contro il Parkinson, io ci credo davvero che sia finito in beneficenza OGNI SINGOLO PENNY guadagnato dalla vendita dei biglietti per assistere allo spettacolo dal vivo (prezzi a partire da 200 pound per i posti in piccionaia, a salire fino a quasi 3000 pound per i posti con vista sulla proposta di matrimonio di Sid Wilson degli Slipknot alla figlia di Ozzy – sì, è successo anche questo), dei biglietti per assistere in streaming (al costo di “soli” 27 euro) e dell’onestissimo merch commemorativo (45 pound per la maglietta più sfigata). Per la cronaca, tra i 40.000 presenti al Villa Park e i quasi 6 milioni di spettatori collegati in streaming (beh, dai, saranno stati sicuramente tanti, ma magari non proprio 6 milioni, ndbarg) sono stati raccolti oltre 140 milioni di pound, anche alla luce del fatto che nessuna tra le band presenti ha percepito cachet. Direi che già solo questa ragione giustificherebbe il circo messo in piedi.

Ma andiamo ora al succo del discorso, e cioè le esibizioni. Come detto, ogni gruppo, accuratamente selezionato da Sharon insieme al direttore musicale (!) Tom Morello, si esibisce per una manciata di brani includendo una o più cover dei Black Sabbath.

Attaccano i Mastodon, che con l’occasione presentano dal vivo il nuovo chitarrista Nick Johnston in sostituzione di Brent Hinds, il quale nel frattempo ha iniziato a lanciare letame contro i suoi ex compagni nella migliore tradizione delle separazioni “consensuali”. Suonano Black Tongue da The Hunter, l’immancabile Blood and Thunder e una notevole versione di Supernaut con Danny Carey, Eloy Casagrande e Mario Duplantier ai rullanti. Questi ultimi appaiono un po’ sprecati, a dir la verità, ma comunque il tutto è gustoso.

A seguire, presentati come tutte le band da un Jason Momoa in versione Carlo Conti, è il turno dei Rival Sons, che so che voi trucidi adoratori del Capro disdegnate in quanto fighetti, ma che al sottoscritto piacciono assai. Peraltro furono proprio loro ad aprire l’ultimo concerto (quello vero) dei Black Sabbath a Birmigham, quindi la loro presenza ha un senso particolare e la loro versione di Electric Funeral, c’è poco da dire, spacca.

È poi il turno degli Anthrax, che ripropongono sempre lo stesso show da trent’anni, anche quando devono suonare solo due pezzi come in quest’occasione: stesse movenze, stesse faccette, stesso suono, sembrano quasi incastonati nel tempo. Fanno Indians e Into The Void, vestiti ciascuno con una maglia col nome del rispettivo omologo nei Sabbath (per dire, Scott Ian ha la maglia con la scritta “Iommi” sul retro – te piacerebbe, Scott…).

Ogni cambio palco è velocissimo, sembra di assistere a dei pit stop durante un gran premio di Formula 1, anche grazie a una sorta di set girevole che facilita il tutto. Sugli Halestorm non mi esprimo, anche perché, di tutte le canzoni dei Sabbath e/o di Ozzy che potevano coverizzare, scelgono Perry Mason da Ozzmosis. Vabbè. Poi arrivano i grandissimi Lamb of God, con una versione di Children of the Grave che avrebbe meritato i calci in culo di Geezer Butler se solo fosse stato ubriaco come quella volta a Corkscrew Saloon. Davvero agghiacciante. Peraltro, al termine del pezzo, Randy Blythe in piena crisi mistica lancia inspiegabilmente le sue scarpe al pubblico, che spero gliele abbia rilanciate indietro schifato. Quasi lo preferivo quando dal palco lanciava spettatori.

Giunge il temutissimo momento della prima all star band, guidata dal gran ciambellano Tom Morello, che sciorina una serie di cover sabbathiane fatte da gente improbabile e termina con una sguaiata versione di Changes cantata (o meglio, urlata) dall’icona dei giovani fluidi Yungblud. Proprio quando sto iniziando a dubitare che l’intento benefico possa davvero giustificare tutto questo salgono sul palco prima gli Alice In Chains (stupenda la loro versione di Fairies Wear Boots, in coda a Man In The Box e Would?) e poi i Gojira, che alzano prepotentemente l’asticella piazzando l’olimpionica Mea culpa (Ah! Ça ira!), con tanto di soprano dal vivo, prima di Under the Sun suonata come se il mondo dovesse collassare da un momento all’altro. Spettacolo vero.

La seconda all star band è ancora più dimenticabile della prima, anche perché inspiegabilmente incentrata su brani non dei Sabbath o di Ozzy: da segnalare giusto una tremenda Breaking the Law stuprata da Billy Corgan (ma perché?) e una mirabolante Whole Lotta Love cantata divinamente da Steven Tyler, che io credevo convalescente in qualche rehab center americano e che invece ha ancora un’ugola da paura. A ‘sto punto aspettiamoci l’ennesima reunion degli Aerosmith.

Zoppicante ma a suo modo affascinante il successivo set dei semi-Pantera: Phil Anselmo è al limite dell’ascoltabile ma sentirlo declamare, più che cantare, i versi di Planet Caravan è un colpo al cuore. Che disco meraviglioso Far Beyond Driven. Durante Walk Jason Momoa si getta nel pogo e fa, letteralmente, il vuoto intorno a sé. Oltre che alla ricerca contro il Parkinson, penso sarebbe giusto destinare parte dei guadagni dell’evento alla riabilitazione dei malcapitati da lui travolti nel moshpit.

A seguire, scazzati e perfetti come al solito, arrivano i Tool e ragiono sul fatto che saranno almeno vent’anni che non esistono riprese professionali di loro concerti. L’ennesimo miracolo di Sharon. Il loro set è a mani basse il migliore della giornata: piazzano una spettacolare versione di Hand of Doom tra Forty Six & 2 e Ænema e si confermano, una volta di più, band di un altro pianeta.

Sugli Slayer non riesco a essere oggettivo, perché con loro per me è sempre e solo una questione di pancia. Possono sciogliersi, riunirsi, licenziare membri, assumerne altri, tirarsi reciprocamente merda addosso, ma la tripletta South of Heaven Raining Blood Angel of Death mi riconcilia sempre con la vita e mi ricorda ogni volta perché sono metallaro. Nel mezzo ci mettono anche Wicked World dall’omonimo dei Black Sabbath, e va bene così.

Giunge poi il momento dei due set più lunghi della giornata prima degli headliner e ciascuno di essi rappresenta uno spietato spaccato dello stato di forma attuale dei gruppi che li eseguono. Quello dei Guns N’ Roses tecnicamente non sarebbe neanche male, anzi. Nella versione a 5 membri, finalmente senza Dizzy Reed e la tastierista paillettata, il suono ne guadagna, più secco e compatto, e tirano fuori ben quattro cover dei Sabbath, tra cui It’s Alright da Techical Ecstasy. Il problema è uno solo, ma bello grosso (in tutti i sensi): si chiama Axl Rose, e io davvero non capisco perché ormai si ostini a cantare tutti i pezzi con quell’urticante falsetto che farebbe scappare atterrite intere colonie di gatte in calore. Cioè, io sono sicuro che lui riuscirebbe a cantare in qualche altro modo, magari abbassando la tonalità, e a rendere il tutto un po’ più, se non accettabile, quantomeno godibile. Invece no, il Tafazzi di Los Angeles continua imperterrito nella sua crociata contro il buongusto e i nostri timpani.

Non vogliono troppo bene ai nostri timpani neanche i Metallica, che però almeno ci mettono il cuore. James Hetfield mi sembra appesantito, pare faticare anche sui pezzi propri nonostante si percepisca la sincera emozione per essere lì a omaggiare i suoi idoli. In generale, poi, ho come l’impressione che i Metallica abbiano i suoni peggiori e che le chitarre siano, come dire, accordate male, ma questo potrebbe pure essere colpa della visione in video. Mi sarei aspettato come cover Sabbra Cadabra, all’epoca inserita in Garage Inc., e invece attaccano con Hole in the Sky e infilano Johnny Blade (scelta, bisogna ammetterlo, di gran gusto) tra For Whom The Bell Tolls e Battery. Chiudono con una Master of Puppets inspiegabilmente spompata. Non lo so, Rick.

Ok, amici, fin qui abbiamo scherzato, ma ora la faccenda diventa terribilmente seria. L’inconfondibile intro di Carl Orff precede la fuoriuscita da una botola nel palco del trono su cui siede Ozzy, per il suo set solista. L’impatto visivo, seppur anticipato da foto circolate un po’ ovunque prima dell’evento, è straziante. Il Principe delle Tenebre che avevamo lasciato fradicio e indemoniato sul palco della Genting Arena di Birmingham nel 2017 è oggi un vecchietto piegato dal Parkinson, costretto su una sedia e in essa, come nella sua malattia, intrappolato. È esattamente questa la scena che mi fa concludere che il Back to the Beginning sia stata, in fondo come in principio, una cosa sbagliata. È quello sguardo perso nel vuoto che mi fa pensare che qualcuno accanto a Ozzy, qualcuno che lo ama davvero, forse avrebbe dovuto sussurrargli nell’orecchio che non era il caso di esporre la propria umanissima fragilità davanti a tutto il mondo. Però, in fin dei conti, se era davvero questo ciò che voleva, se era davvero questo il modo che desiderava per dare l’addio alle scene, chi sono io per giudicare?

Rimango col dubbio mentre, accompagnato dal fido Zakk Wylde alla chitarra (commovente il suo discreto ma decisivo supporto vocale nei momenti di difficoltà del Principale) e dal rientrante Mike Inez al basso (piacevolissima sorpresa il suo ritorno, a memoria mancava dal tour di No More Tears), Ozzy appare un leone nella gabbia del suo trono e alterna momenti in cui sembra cedere all’emozione ad altri in cui canta in modo sorprendentemente chiaro e pulito. Vengono suonate I Don’t Know, Mr. Crowley e Suicide Solution, ma è su Mama, I’m Coming Home che capisco che qualunque discorso tecnico in questo caso non ha alcun senso. L’intero stadio è in lacrime, Ozzy singhiozza su quei versi scritti trentacinque anni prima e che ora diventano a tutti gli effetti il suo testamento. “I’ve been laid up for six years and you’ve got no idea how I feel”, dice Ozzy commosso alla folla, “Thank you from the bottom of my heart”. Il set solista si chiude come da copione con Crazy Train, mentre sui megaschermi scorrono le immagini di Randy Rhoads.

Solito velocissimo cambio palco e arriva il momento più atteso della giornata. Le inconfondibili campane a morto che aprono Black Sabbath lasciano immaginare che i Black Sabbath diano inizio alle danze col brano omonimo, esattamente come otto anni fa. E invece, alla fine dell’intro, i nostri entrano in scena e attaccano War Pigs. Geezer Butler ormai pare Saruman, ma, al netto di barba e capelli bianchissimi, è lo stesso brutto ceffo di sempre. Tony Iommi, ça va sans dire, si conferma un’entità soprannaturale, sembra che il tempo su di lui non faccia effetto. La curiosità quindi è tutta per Bill Ward, che, Ozzy a parte, è quello che più ha risentito dell’ineluttabile scorrere degli anni: la forzata assenza dal palco negli ultimi anni e la comprensibilissima emozione del momento si sentono tutte, ma alcune cose non possono cambiare, in primis l’attitudine scanzonata che dopo il primo pezzo lo fa rimanere senza maglietta come ai bei tempi svelando un fisico alla Gollum (cit. Tony Iommi). Tra le cose che non possono cambiare c’è anche il suo tocco jazzy, nonostante alcuni passaggi vengano rallentati, altri suonino un po’ imprecisi e altri ancora appaiano, semplicemente, stanchi, il che per certi versi spiega come la scelta di rimpiazzarlo con Tommy Clufetos durante l’ultimo tour dei Black Sabbath fosse sì spietata, ma di certo non campata per aria. Però, intendiamoci, anche in questo caso i discorsi tecnici lasciano il tempo che trovano, dato che l’intero spettacolo è costruito per avere esclusivamente una valenza emotiva. Non è un concerto, è un’ode funebre.

Certo, quando sento Geezer che massacra il basso all’inizio di N.I.B. o Tony che sciorina l’immortale riff di Iron Man, penso che loro potrebbero (o avrebbero potuto) continuare a oltranza, dato lo stato di forma in cui sono. Ma poi sento Ozzy, in netto calo vocale nel set con i Black Sabbath rispetto al set solista, che dà tutto sul finale con Paranoid e arranca senza quasi più voce. Lo vedo che agita le gambe come se volesse scappare via da quel cazzo di trono e invece resta lì, esausto, a ringraziare la sua gente mentre intorno a lui esplodono fuochi d’artificio. Lo guardo rimanere solo e un po’ smarrito sul palco, a ricevere l’applauso finale e rendere ancor più plasticamente evidente che questo è stato l’addio a lui, come artista e come uomo, piuttosto che ai Black Sabbath, i cui periodi senza Ozzy non vengono infatti minimamente considerati. E penso che, alla fine, il Back To The Beginning potrà anche essere stata una cosa sbagliata, ma chi di noi non ha avvertito almeno un fremito al cuore guardando questo vecchio provato dalla vita e dalla malattia che urla per l’ultima volta God bless ya!, chi di noi non ha versato mezza lacrima sentendolo biascicare “Times have changed and times are strange, here I come but I ain’t the same”, insomma, chi di noi è rimasto impassibile davanti a tutto ciò, probabilmente, come diceva quello, ha un bidone dell’immondizia al posto del cuore.

25 commenti

  • Avatar di Bonzo79

    Continuo a non riuscire a farmi un’idea precisa di tutto questo. Sento e leggo commenti di tutti i colori dello spettro e mi tocca dare un po’ di ragione a tutti, che è come dire non darla a nessuno.

    E’ una cosa troppo più grande di me.

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    • Avatar di nxero

      Io non l’ho guardato perché sapevo che non ce l’avrei fatta. Gli spezzoni che sono riuscito a vedere mi hanno spezzato in due, non avrei potuto reggere in diretta e per troppo tempo. È una cosa troppo dura da mandare giù. È una cosa troppo più grande di chiunque.

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  • Avatar di Schnell

    Faccio molta molta fatica a fidarmi della buona volontà di queste operazioni quando dietro c’è Sharon Osbourne

    Quello che ci frega qui è l’aspetto umano, ovvero la destinazione dei proventi in beneficenza e la patologia di Ozzy messa in bella mostra: questi due aspetti non permettono di essere obiettivi. Se avesse cantato dietro un telo, per evitare di mostrare la sua fragilità, avremmo avuto lo stesso riscontro entusiastico? Oppure se avessero suonato “solo” i Black Sabbath, avrebbero venduto lo stesso numero di biglietti? Dubito fortemente.

    P.S. Freddie Mercury, non Freddy…e che cazzo!

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  • Avatar di Cure_Eclipse

    Non so se si può dire, ma si trova tutto il concerto (8 ore e mezza) in HD. Fate un fischio se vi interessa.

    Allora, anche nel mio caso mixed feelings: vedere Ozzy in quelle condizioni mi ha fatto davvero compassione, anche se – come scritto sopra – la sua commozione è sincera. Molti gruppi mi sono piaciuti parecchio (Mastodon, Gojira, Alice in Chains, Tool superiori al resto del mondo, Pantera perché sono un fanboy, Slayer perché Araya è gasato a bestia), ho apprezzato anche qualcosa delle superband e, vi dirò, anche la drum battle, i suoni in generale sono stati molto buoni (chitarra e basso dei Sabbath da sburro). Quindi vale la pena dargli un’occhiata, sospendendo forse il giudizio sulla necessità dell’evento.

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  • Avatar di Old Roger

    Considerando che sei Sabs ho solo i primi sei album e del buon Ozzy conosco qualche pezzo random , non posso non commuovermi pensando che senza questi quattro , nessuno di noi sarebbe qui.

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  • Avatar di Asmodeus

    Cosa posso dire.. l’evento coi suoi alti e bassi è stato piacevole ed emozionante.. anche se mi ha fatto inevitabilmente sbattere contro il muro della consapevolezza che gli unici ad essere invecchiati non sono solamente i miei idoli ma che gli anni sono passati anche per me.. le voci non sono più quelle di una volta, la grinta anche.. ma sfido voi altri a salire su un palco a quell’età dopo una vita passata non proprio timidamente come chi su quel palco si è messo di nuovo in discussione.. è stato bello e triste allo stesso modo.. e sono felice di essermelo gustato dall’inizio alla fine

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  • Avatar di Elizabetha

    Io ho avuto la fottuta fortuna di essere lì, e leggendo l’articolo mi sono ritrovata con la maggior parte della tua analisi su quello che è stato davvero il concerto dei concerti. Un evento che ha regalato a noi presenti una scarica continua di emozioni: abbiamo sorriso, urlato, c’è chi ha pogato… e sì, ci siamo anche commossi (quel vecchiaccio ce l’ha fatta a farci piangere, e non dalle risate stavolta). Sul palco sono saliti artisti giganteschi, ma è innegabile che si sia sentita la mancanza di altre band altrettanto leggendarie, che hanno condiviso la scena musicale o che da quei mostri sacri hanno preso ispirazione. E diciamocelo: qualcuno poteva tranquillamente starsene a casa (David e Axel anche no!), ma tant’è… Sharon comanda ancora, nel bene e nel male.

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  • VecchiaRomagnaPredappio
    Avatar di VecchiaRomagnaPredappio

    Se c’è stato uno su cui non avrei scommesso due cent era proprio Youngblood, che ha la benedizione di Oz da anni al punto da aver voluto fare una comparsata in un suo video,e invece è stata una gradita scoperta pur non essendo io ne teen da un pezzo visto a novembre son 43 ne gender confuso.Cspisco voler essere partigiani del metallo a tutti i costi ma farlo mostrandosi boomer nella peggiore eccezione del termine è una scelta discutibile. Per il resto evento osceno di pura pornografia del dolore paraculato con la beneficenza dall’ arpia che voleva i riflettori un’ ultima volta.Circonvenzione di incapace chi si ripete, prima i lifting,poi il podcast ora l’ apoteosi cin questa cosa, probabilmente se Ozzy fosse defunto prima e fosse stato un evento alla memoria sarebbe stato tanto meglio. Ora sono curioso di vedere come ne spolperà ulteriormente il cadavere vivente l’ arpia in attesa di fare cassa quando Ozzy sarà cadavere sul serio.

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  • Avatar di Fanta

    C’è un grosso problema di mitopoiesi nel mondo del metal. Ora, non mi rompete i coglioni se non conoscete il termine. Leggetevi Ellenberger, Bergson, riaprite qualche libro, perché è sempre più frequente incontrare persone che non si incuriosiscono, non approfondiscono. Non fanno un cazzo e si appellano a categorie del senso comune pure quando tentano di scopare o di dire qualcosa che alla fine risulta grottesca nella propria banalità.

    Fondamentalmente, noi cresciuti negli anni novanta, siamo malati di passatismo; incapacità di separarci dalla presunta gloria del passato. Io credo che sia colpa nostra se non c’è stato un ricambio generazionale. Siamo qui a farci venire i lucciconi davanti a gente che sale sul palco col pannolone nel tentativo di contenere la merda. La merda come residuo ineliminabile ma che andrebbe confinata, con dignità, nella propria privata eterotopia. Rendere pubblica la merda e il grottesco della propria vecchiaia è indecente. Lo sosteneva anche Carmelo Bene. Esporre un corpo al di là dei quarant’anni è uno squallido tentativo di esorcizzare la consapevolezza del proprio tramontare esteticamente.

    Non voglio dire che la vita finisca a quaranta, a cinquanta o giù di lì. Voglio solo dire che la dignità si misura in rapporto alla capacità di conferire alla propria identità una dimensione che contempli ampi gradi di libertà. Non più estetica (leggi: non più performance) bensì capacità di ammantare di pensiero l’aspetto emotivo con cui ognuno di noi è chiamato a fare una scelta. Agire impulsivamente versus comprendere a partire dal vissuto.

    Nello specifico: sarebbe stato interessante fare una sorta di bando per giovani band (scusate il gioco di parole) che al contempo coverizzassero i Sabbath e proponessero pezzi propri. Anche lasciando un po’ di spazio ai vecchi meno decrepiti. Perché no. Anche a costo di incassare meno (io non ci credo che abbiano devoluto tutto). Prendendosi dei rischi. Magari riducendo di due terzi lo spazio per i pannoloni e lasciando la scena a gente giovane. Perché l’unica strada per rinnovare passa dall’esposizione costruita ad hoc di band giovani. E QUESTA È UNA CAZZO DI RESPONSABILITÀ DI CHI È VENUTO PRIMA ED È DISPOSTO A RICONOSCERE DUE COSE: LA PROPRIA IMPORTANZA E LA CAPACITÀ DI LASCIARE IN EREDITÀ QUALCOSA. Spendendosi per chi raccoglierà il testimone.

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    • Metallaro scettico
      Avatar di Metallaro scettico

      forse hai pure ragione, ma non quando dici che dobbiamo lasciare qualcosa ai giovani. Quelli fanno quel che gli pare ed è giusto così. Noi ci teniamo i nostri ricordi e visto che abbiamo i soldi, riusciamo a tenerli in vita ancora per un po’

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  • Avatar di Epicmetal

    E alla fine è davvero stato il suo funerale. Ozzy è appena morto…

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  • Avatar di Claudio

    ciao a tutti, non so se sia vera o fake news ma sembra che ozzy sia morto poco fa (e leggerlo dopo aver letto l’articolo qui sopra, mi lascia senza parole…. )

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  • Avatar di tommy

    Nemmeno il tempo di commentare che Ozzy ci ha lasciato, da un certo punto di vista ora l’evento assume ancora più significato, un addio vero e proprio, poi non sapremo mai quanto forzato dalla moglie e quanto spontaneo. Avrei preferito un intero show dei sabbath senza l’inspiegabile show di ozzy solista ma dettagli, grazie ozzy

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  • Avatar di Bonzo79

    Ora che Ozzy ci ha lasciato, mi sa che dobbiamo ripensare daccapo tutto

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  • Avatar di weareblind

    Pensate un po’, ci lascia oggi. Grazie di tutto.

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  • Metallaro scettico
    Avatar di Metallaro scettico

    Vogliamo anche ricordare che i versi di Mama I’m coming home li ha scritti Lemmy?
    Oggi se ne va l’unico paragonabile. RIP

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  • Avatar di oldmaniac

    grazie di tutto Ozzy

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  • ROBERTO DE SIMONE
    Avatar di ROBERTO DE SIMONE

    col senno di poi si comprende l’iniziativa: Ozzy stava per morire, Sharon organizza l’ultimo concerto di addio e il ricavato va tutto in beneficenza all’ospedale dove Ozzy era in cura.

    RIP Ozzy, sei stato il più grande 😭😭😭😭

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  • Avatar di Robin

    Io ho avuto la fortuna di essere lì ed è stato il concerto più emozionante a cui abbia mai assistito. Non solo per ciò che il concerto stesso rappresentasse, ma anche per quella tristezza che si percepiva nell’aria. Era come essere ad una living wake, e, visto la triste notizia della sua morte, penso che fosse proprio così. Ozzy sul quel palco, quella serata, ha detto addio a tutti: ai fan, ai colleghi, alla musica e al mondo.

    È stato triste, bellissimo, emozionante e mi porterò questo bellissimo ricordo per sempre.

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  • Avatar di ranmaru

    Chiedersi se davvero tutto il ricavato sia stato devoluto ha poco senso, anche solo il dichiarato è stato un enorme atto di beneficenza.
    Credo che questo show sia chiaramente un epitaffio, sapeva benissimo che gli mancava poco e probabilmente ha voluto lasciare il mondo nel modo in cui preferiva.
    Ozzy prima di un cantante è uno showman a tutto tondo, lo ha sempre dimostrato anche con la capacitá di anticipare e sfruttare i nuovi media , cosa nn da poco.
    Dal mio credo che Sharon a parte, sia stato piú una cosa dovuta a se stesso, morire in un ospedale o lasciare il mondo col botto?
    A molti fará storcere il naso ad altri porta a post da strizzacervelli su quanto siamo scemi ed attaccati al passato, ma questo poco importa, Ozzy ha lasciato un epitaffio enorme che ha toccato tutti, e anche se vogliamo fare i criticoni inutile ammettere che ha fatto piacere vederlo un’ ultima volta sul palco , eccentrico, folle e discutibile fino alla fine.
    Dal mio rimane solo una cosa da dire “Ozzy e grazie!”

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