Il report del WACKEN 2024

Terzo Wacken per me e gentile signora, dopo il battesimo del 2019 e il ritorno alla vita post-pandemia del 2022. A causa di varie questioni il report arriva in mostruoso ritardo, quindi taglierei ogni preambolo e andrei direttamente al primo giorno, il 31 luglio, ovvero il

MERCOLEDÌ

Quando arriviamo vorrei capire se riusciamo a vedere qualche minuto di Anneke van Giersbergen, che suona in un posto chiamato Metal Church e che, dopo quattro giorni di festival, non ho ancora capito dove sia. Quindi niente Anneke, ma non fa nulla, perché sappiamo tutti che tanto ormai l’esperienza non è proprio il massimo. Quando entriamo nell’area principale sul megapalco ci sono i FLOGGING MOLLY, di cui consumai un paio di dischi all’epoca che fu. Con questo sottofondo da pub mi fiondo alla prima bancarella che mi capita a tiro e ne esco con un bratwurst in una mano e una birra nell’altra. Il maltrattamento gastrointestinale del Wacken 2024 può cominciare.

Van Canto

Guardiamo qualche pezzo dei suddetti Flogging Molly ma poi ci allontaniamo, perché vorrei andare a sentire gli Hellripper. Durante il percorso passiamo sotto al palco dove stanno suonando i VAN CANTO, che attirano la nostra attenzione non perché ci piacciano ma perché sono una cosa così pazzescamente imbarazzante il cui successo, onestamente, proprio non si spiega. Cioè, sarebbero potuti andar bene se fossero durati lo spazio di un paio di dischi, ma ormai saranno quasi vent’anni che questi stanno in giro e sinceramente la cosa non è più giustificabile. Rimaniamo un po’ a guardarli per qualche minuto, a causa di una morbosa fascinazione per l’orrido simile a quella che spingeva la gente ad andare su Rotten.com. Il titolo per un loro report potrebbe essere fare schifo come preciso dovere morale, citando Carlo a proposito dei Solefald e del loro bububu. Tra di loro ci sono dei tizi che stanno tutto il tempo a cantare zigazigaziga per imitare la chitarra elettrica, pensate come devono essere i provini dei Van Canto. Fanno Rebellion (The Clans are Marching) e poi Wishmaster, noi nel frattempo abbiamo preso pure un altro pezzo di maiale arrosto, ma purtroppo il tempo passa veloce e mi rendo conto che mi sto perdendo gli Hellripper per colpa di questa versione crucca dei Neri per Caso.

Megabosch

Arriviamo trafelati in zona Wasteland, l’area agghindata in stile Mad Max dall’altra parte rispetto ai palchi principali, per cercare di vederci gli ultimi minuti degli Hellripper. Purtroppo hanno finito, ma, tra gli infiniti moccoli e insulti verso i Van Canto e soprattutto verso noi stessi che abbiamo perso tempo a guardarci questi ultimi, capitiamo di fronte a un minuscolo palco su cui si stanno esibendo tali MEGABOSCH. Il palco è tutto per loro, letteralmente: si esibiscono là sopra due volte al giorno e in cima c’è pure un’installazione col loro logo. Fanno una specie di hard rock sguaiato cantato in tedesco, con un look che si rifà allo stile dell’area Wasteland, attorniati da comparse che ballano su automobili distrutte e cose del genere. Sul tetto del palco c’è un tizio ubriachissimo che caracolla fuori tempo reggendo un enorme fucile finto in mano, evidentemente inconsapevole di qualsiasi cosa stia succedendo intorno a sé. È lui il mio idolo di giornata.

Qui io e mia moglie ci separiamo per la prima volta. Lei è attirata dai microscopici palchi ad altezza terreno sparsi per il festival, e nello specifico vuole vedere un tizio che fa cover di, tra gli altri, Ed Sheeran. La qual cosa, vi dirò, mi ha preoccupato non poco. Io invece rimango nel Wasteland e guadagno la prima fila per i PORTRAIT, che furono segnalati dallo jägermeister Lorenzo Centini e che qui si occupano di celebrare i Mercyful Fate come è giusto che sia. Gran fomento, bella storia e tutto, ma i suoni sono decisamente incasinati e io capisco pochino. Però dopo una ventina di minuti vado via e mi ricongiungo con la mia signora e padrona, perché stanno per arrivare gli headliner della serata.

In Extremo

Avevo già visto gli IN EXTREMO nella scorsa edizione, sempre sul palco principale. In quell’occasione avevo convinto mia moglie a ficcarci tra le prime file ed eravamo finiti schiacciati in mezzo a una selva di crucchi alti tre metri, temendo per le nostre vite. Stavolta invece ce la prendiamo comoda e ci piazziamo a una distanza ragionevole, godendocela per bene. Loro godono di grande successo in patria e per onorarli il Wacken gli riserva uno dei due grandi spettacoli di fuochi d’artificio di tutto il concerto (l’altro sarà per gli Avantasia): botti, fischioni e tricchetracche che faranno da sottofondo a una scaletta molto migliore di quella dell’altra volta, in cui trova posto anche Villeman og Magnhild, che per me rimane il loro apice. Poi finisce tutto e fuggiamo in albergo, ché ci sentiamo come se il ciccione degli In Extremo ci avesse camminato addosso.

GIOVEDÌ

Mia moglie si è svegliata con la fissa di vedere tali Asenblut, per il solo fatto che il nome la intriga. Mentre siamo in macchina però li ascoltiamo e ciò le fa cambiare subito idea, perché trattasi di una specie di copia degli Amon Amarth ancora più piatti e monotoni, e ce ne vuole. Quando arriviamo sul sacro suolo del Wacken sentiamo i soliti SKYLINE, i portafortuna del festival, una cover band che viene chiamata ogni anno a suonare sul palco grande come talismano e che è agilmente definibile come il gruppo più miracolato della storia del metal. Gironzolando passiamo davanti a tali GRIEFGOD, gruppo death lituano, e poi, per curiosità, guardiamo qualche minuto dei suddetti ASENBLUT: fanno schifo come da copione, anche se i suoni sono pessimi e si riesce a distinguere solo l’incessante doppio pedale di plastica.

Armored Saint

Arrivati a questo punto io devo cercare di farmi perdonare dagli dèi del metal per essermi perso gli Hellripper il giorno prima e quindi mi fiondo a sentire gli ARMORED SAINT, guadagnando pure le primissime file. Niente da dire se non che John Bush ha nel 2024 una voce dieci volte più potente di quella di Belladonna quando lo vidi al Metal Camp vent’anni fa. La band poi è uno schiacciasassi e pure i pezzi nuovi, che su disco non ho sentito, dal vivo sembrano spaccare abbastanza. E per quella questione del perdono mi rassicura anche Belardi: “Vedere gli Armored Saint dal vivo scagionerebbe pure Rosa e Olindo”, mi scrive. Per guadagnare ulteriori punti-Valhalla mi prendo pure una scarpata in faccia da un tizio tracagnotto in pieno delirio di crowdsurfing, che mi passa sulla testa almeno cinque volte, perdipiù scapocciando mentre lo teniamo sollevato.

Rage

Poi ci sono i RAGE: mentre mi incammino sento in lontananza che parte Refuge e il fomento si impossessa di me. Loro sono in tre ma sembrano il doppio (e non è un riferimento alla stazza di Peavy Wagner), tanto che aguzzo gli occhi per vedere se per caso non si sono portati dietro una seconda chitarra. E invece no, sono solo loro tre. Formula perfetta, approccio splendido e musica ottimale per quest’ora di metà pomeriggio. Peavy Wagner è una versione ipertrofica di Carrozzi: enorme, pelato, powerone, occupa mezzo palco da solo e attira tutti gli sguardi verso di sé. End of All Days è l’apice dell’esibizione, dopodiché posso andare via felice.

Messiah

Cerco di guardare un po’ dei MESSIAH, ma dopo cinque minuti finiscono. Quindi mi faccio trascinare da mia moglie in uno dei suddetti micropalchi, il Santa Promilla, più che altro un tendone addobbato in stile taverna dei pirati dove due volte al giorno suonano i TIR SAOR, che suonano roba irlandese-marinaresca nonostante siano due crucchi. È tutta un’enorme mascherata, gran parte della nostra musica è questo ormai. Però quantomeno ci si rilassa, su balle di fieno e barili, all’ombra del tendone, sorseggiando l’ennesima birra sgasata. E di rilassarsi c’è tanto bisogno, perché poi arriva il turno degli UADA, tra coloro che attendevo con più ansia. Iniziano con Snakes & Vultures, dal secondo Cult of a Dying Sun, e non avrei potuto chiedere di meglio. Non sono un gruppo da Wacken, né tantomeno il sole ancora alto nel cielo aiuta l’atmosfera, ma vi giuro che spaccano uguale. Quasi un’ora di esibizione che scorre via velocissima, lasciandoti persino deluso quando finisce, mentre di solito in questi contesti la resistenza fisica è bassissima. Al netto della luce, dell’orario e della mancanza di atmosfera adeguata, uno dei concerti migliori dell’intero festival.

A questo punto un dilemma: vado al supermegapalco a vedere i KK’S PRIEST oppure mi dirigo verso gli INCANTATION? Alla fine faccio la scelta più sensata: passo dai primi giusto per godermi The Ripper, introdotta Tim Owens che urla what’s my name?, e poi vado da John McEntee che sta distruggendo tutto su un palco più piccolo. La solita ingiustizia: dai surrogati poveri dei Judas Priest ci sono decine di migliaia di persone, dagli Incantation noi soliti quattro stronzi. Eppure questi hanno fatto il concerto della vita, e forse il concerto più bello di tutto il Wacken. Quando chiudono con Impending Diabolical Conquest mi ritorna alla mente il vecchio meme che vedete qua sopra. Dieci e lode, grande John, dieci e lode.

Accept

Dopodiché c’è il concerto degli ACCEPT, che al Wacken è come l’Angelus del Papa al Vaticano. L’atmosfera è sacrale, Wolf Hoffmann è l’officiante perfetto del metallo, e l’unico motivo per cui la gente non sta tutto il tempo in lacrime è perché suppongo che mediamente gli astanti li avranno già visti almeno una dozzina di volte. Per me però è solo la seconda, o forse la terza, non ricordo.

Opeth

Poco prima della fine ci spostiamo al Louder, dove alle dieci di sera è programmato l’ultimo concerto della nostra agenda, ovvero gli OPETH. Quando quel fricchettone di Mikael Akerfeldt sale sul palco parte un tripudio di luci psichedeliche, immagini lisergiche dai megaschermi e pure un insistente odore di erba dal pubblico. Dovrei fare scrivere il report ai responsabili di suddetto olezzo, perché immagino siano quelli che si sono goduti meglio lo spettacolo. Ad ogni modo, qualsiasi cosa si pensi degli Opeth, riescono sempre a tirare fuori un concertone: il loro suono è sempre precisissimo, nitidissimo, caldo, avvolgente, tutto si sente perfettamente e tutto trasmette esattamente quello che vuole e deve trasmettere. Poi tra un pezzo e l’altro viene fuori la verve comica di Akerfeldt, vero standing comedian prestato alla musica, che passa tutto il tempo a parlare degli Scorpions che stanno suonando sul palco grande a qualche centinaio di metri di distanza. Lui è l’unico che si presenta in giacca ai concerti, oltre a Ciccio Russo (perché la giacca ha più tasche, dice quest’ultimo. Ma poi più tasche rispetto a cosa? A una maglietta? Una felpa? Una canottiera?). Comunque oggi la scaletta è stata scelta dai fan, quindi quasi tutti pezzi vecchi (tranne Sorceress, che dal vivo spacca): non c’è però Black Rose Immortal, la qual cosa spinge mia moglie a pensare male sulla realtà effettiva della scelta del pubblico. E pure Mighi Romani, quando glielo comunico. Ma va bene lo stesso così, dai.

VENERDÌ

Quella del venerdì è una giornata particolare. A parte i Sonata Arctica a mezzogiorno, non ci sono concerti per noi interessanti fino al tardo pomeriggio, e dato che tra una cosa e l’altra dall’albergo ci mettiamo un’ora ad arrivare, decidiamo di sacrificare l’esibizione dei finlandesi per riprendere le forze e fare un giro nelle vicinanze. Purtroppo il Wacken è letteralmente un campo di vacche che si trova nel mezzo del nulla, galleggiante su una pianura alluvionale a bassissima densità abitativa in cui, a parte qualche paesello abbastanza triste, c’è pochissimo da vedere. Vi risparmio quindi le nostre poco interessanti peregrinazioni e ricomincerei dal momento in cui ritorniamo nell’area stampa, dove incontriamo Josè, glorioso autore del sito/podcast Noche de Rock, che avevamo conosciuto nel 2022 e che questa volta si è portato dietro tutta la famiglia.

Feuerschwanz

Il primo gruppo che nostro malgrado incrociamo sono i FEUERSCHWANZ. Probabilmente li conoscete, robaccia crucca in cosplay, un impiccio scemo con l’immaginario medievaleggiante posticcio da film di Hollywood, i suoni di plastica e l’aggressività di una puntata de L’incantevole Creamy. Ovviamente ai tedeschi piacciono tantissimo. Francamente io mi sono stancato di queste mascherate tutte uguali, non fanno ridere e hanno smesso di essere divertenti da un pezzo. Bolle di sapone, balletti, faccette sceme, movenze da festa delle medie, e dai su. La cover di Dragostea Din Tei è la pietra tombale, a ‘sto punto quella del capitone era meglio. Poi fanno pure Warriors of the World (United), e io non voglio avere più niente a che fare con questa roba qua. Un giorno o l’altro bisognerà davvero fare un discorso serio intorno alla piega che hanno preso i metallari ormai da troppo tempo. Oltre un ventennio fa i Dillinger Escape Plan fecero un Ep chiamato Irony is a Dead Scene, magari qualcuno se lo ricorda, quello con Mike Patton alla voce. Ricordo distintamente le loro interviste all’epoca, in cui spiegavano il titolo del disco parlando di come il fare gli scemi avesse preso piede da troppo tempo nel circuito hardcore, e che era ora di smetterla. Parlavano di magliette “ironiche”, pose paradossali e così via. All’epoca non capivo, ma adesso capisco. Quella roba ha infettato il metal e ci ha pure messo radici. Il disco dei Dillinger Escape Plan è del 2002, quindi direi che, anche qui, lo scherzo è bello quando dura poco. I cazzeggiamenti insistiti, le toppe con gli unicorni e i gattini vicino a quelle dei Bathory, i peluche, i vestiti da dinosauro di peluche, il mettersi per terra a vogare, il picconare, gli uomini con le treccine colorate e i gonnellini rosa con le maglie di Burzum, e basta oh. Poi questo atteggiarsi a nerd quando essere nerd è di moda da decenni, immaginando di essere controcorrente e contro il sistema, davvero, BASTA. Non è divertente, non è originale, non è ironico, non è un cazzo di niente se non una cringiata terrificante che vi qualifica per gli stronzi che siete. La piega terribile che ha preso il metal negli ultimi anni è il modo delle etichette discografiche per sfruttarvi, quei gruppi in cosplay tutti uguali, mezzi folk mezzi sinfonici, pastoni immondi con lo screaming, i falsetti e le zoccole seminude a fare il controcanto, le batterie di plastica riprodotte in serie, i ritmi zumpappero zumpappà tra un blast beat e un’orchestra di poliuretano espanso, tutti coi vestiti da carnevale made in China che si divertono. Il metallo sta diventando sempre più una pagliacciata e bisognerà pure che qualcuno gridi il suo personalissimo VAFFANCULO senza fare quei soliti discorsi monghi da a te cosa toglie o, ancora peggio, “tu dici così del vogare ma all’epoca qualcuno diceva così lo stesso del pogare”, discorso che ho sentito fare con le mie orecchie e secondo il quale, se un giorno la moda dovesse essere quella di piazzarsi sotto al palco, cacare per terra e spalmarsi la propria merda in faccia, nessuno potrebbe dire niente perché eh ma dicevano lo stesso del pogo. VAFFANCULO.

Baroness

Girando e gironzolando capitiamo davanti ai NACHTBLUT, che riconosco perché poco prima erano davanti a me in fila per il guardaroba, peraltro in vestiti da scena. Come aspetto e tiro paiono i Tribulation, ma con gli acuti striduli in stile Cradle of Filth. All’inizio sono un po’ contrariato, ma magari è solo l’effetto-Feuerschwanz che mi ha messo di cattivo umore. Poi l’esperienza migliora, e mi ritrovo a pensare che chissà, magari su disco non saranno manco male. Dopodiché le nostre peregrinazioni ci portano una mezz’oretta sotto al palco dei BARONESS, che hanno suonato come si deve, dritti al punto, senza minchiate. Bravi, così si fa. Niente da dire se non HAIL BARONESS.

A questo punto mia moglie torna ad essere attirata dall’orbita gravitazionale dei Tir Saor, quel duo crucco che canta inni marinareschi sotto al micropalco pieno di balle di fieno, ma dopo una ventina di minuti ce ne andiamo per riposarci un po’ nell’area stampa prima del gran finale, perché la serata finirà molto tardi e sarà un tour de force. Durante il cammino incappiamo nella GENE SIMMONS BAND, proprio mentre suona Rock and Roll All Nite. Tempo di rifocillarsi, cazzeggiare con Josè e gentile signora stravaccati sulle poltroncine, e la grande serata del venerdì può cominciare. Pronti?

Blind Guardian

BLIND GUARDIAN. I miei headliner ideali, il mio gruppo preferito di sempre, da sempre, per sempre, nonostante tutto, nonostante il tristissimo declino, i dischi orchestrali, i dischi sinfonici e tutta la merda degli ultimi anni in generale. In Germania sono delle superstar, se lo meritano, e davanti al loro palco saremo un milione e mezzo di persone, nonostante i tedeschi, maledetti loro, tendono a stare là ciondolanti senza cantare, senza commuoversi, senza partecipare più di tanto. Hansi non è in giornata, faccio un rapido calcolo e penso di averlo sentito dal vivo tredici volte, e stasera è una delle sue peggiori prestazioni, almeno al pari di quella, terrificante, coi Demons & Wizards al Gods of Metal del 2000. Loro si sono da tempo aggregati alla grande massa di gruppi che dal vivo tende a suonare soprattutto i dischi più amati, cioè i primi, e questo va benissimo. La scaletta è soprattutto incentrata su Imaginations from the Other Side e Nightfall in Middle-Earth, di roba recente (cioè degli ultimi vent’anni) ne suonano pochissima. Fanno però Sacred Worlds, l’ultimo loro pezzo davvero bello, tratto da At the Edge of Time, ed è un’ottima scelta. Sono d’obbligo, per ovvie ragioni, tre pezzi dall’ultimo, niente di che, ma quantomeno non fanno schifo, normali pezzi di ultimo disco di gruppo in giro da quarant’anni. Mi fa male vedere Andrè invecchiato, ipse quoque, fa capire che il tempo passa proprio per tutti. Lui era immutabile, il mio eroe da sempre, cristallizzato nel tempo, col suo sorriso, i suoi capelli lunghi e la sua leva della chitarra, ma evidentemente invecchiano proprio tutti, a parte Mikael Akerfeldt. Fanno Majesty, io impazzisco come ogni santa volta, mi giro intorno e nel mare di gente sono l’unico a cantare. Forse anche per questo, mi è parso un concerto suonato senza troppo trasporto. Verso la fine mi faccio sollevare per fare crowdsurfing e percorro tutta la strada fino al palco sopra la testa della gente, rischiando la vita e soprattutto gli occhiali un paio di volte. Ero talmente lontano dal palco che passo parecchi minuti là per aria, almeno sei o sette, dato che nel frattempo loro suonano Mirror Mirror e mezza Valhalla.

Vreid

Poi ci spostiamo ai VREID. Se i miei calcoli sono esatti, l’ultima volta che li vidi fu allo Wolfszeit, e alla vecchia guardia dei lettori di Metal Skunk, ne sono sicuro, sarà venuto un brivido. Oggi molte cose sono diverse, a partire dal grande telone col logo dei Windir appeso dietro. Loro però sono sempre gli stessi da tempo immemorabile, tranne il chitarrista, Strom, arrivato nel 2010 e anche lui ex Windir. Praticamente è la formazione dei Windir pari pari, c’è pure il tastierista; manca solo Valfar, che Odino lo abbia in gloria. Purtroppo a vederli siamo in pochissimi. Loro però danno il massimo, fanno anche Saknet, da Arntor, se ho capito bene per la prima volta in assoluto. Dei Windir fanno svariati pezzi, a tutto detrimento dei pezzi firmati Vreid, perché la differenza tra i due repertori è imbarazzante. Ad ogni modo, tirate le somme, è stato tutto molto emozionante.

Korn

A questo punto mia moglie torna in albergo. Sono le undici e mezza e a lei di tirare le due per le Avantasia frega molto poco. Io a quel punto passo ai KORN, giusto per quel paio di canzoni dei tempi della scuola superiore che tireranno fuori, mi dico. Me li immagino bolsi, annoiati e stanchi, impegnati a riprodurre pezzi dai loro mille dischi di merda che sono riusciti a fare dopo quell’antica epoca gloriosa. Anche perché il nu metal non ha proprio senso dopo il 1998, soprattutto se sentito in Germania, anche se i tedeschi si bevono acriticamente qualsiasi cosa, come testimoniano le toppe sulle loro giacche e su cui un giorno bisognerà scrivere qualcosa. Invece, porca puttana, devo ammettere che i miei pregiudizi sono stati spazzati via come polvere al vento. Quando arrivo il concerto è più o meno a metà, mi piazzo a circa venti chilometri dal palco perché davanti a me ci sono tre miliardi di persone, ma anche a questa distanza si intuisce benissimo che loro sono degli animali da palco, lui è un animale da palco, tirano fuori una pompa da paura e soprattutto hanno il buon senso di basare la scaletta sul materiale vecchio. La doppietta Blind / Got the Life quasi mi fa ricrescere i capelli, poi è tutto un ah ma questa me la ricordo fino alla goduria finale di Freak on a Leash. Peccato essermi perso l’inizio, con la sequenza micidiale Here to Stay / Adidas / Clown.

The 69 Eyes

Per colpa dei Korn arrivo tardi ai THE 69 EYES, perdendomi il quarto d’ora iniziale. Passano gli anni e Jirky non perdona: gran parte del pubblico femminile pare accorso qua, e, nonostante il Wacken sia molto accostabile alla classica sagra della salsiccia, per la prima volta la proporzione maschi/femmine sembra pericolosamente vicina alla parità. Quando arrivo stanno suonando Betty Blue, chiudo gli occhi e visualizzo esattamente la mia vita nel 2002. Lui non ha voce, ma non credo questo conti qualcosa: ha carisma, non riesco a trovare le parole per spiegare quanto carisma effettivamente abbia, con quell’attitudine da vampiro rockettaro bel tenebroso che solo in una persona su un milione riuscirebbe a non essere grottesca, specie a quasi cinquant’anni nel 2024. Occhialoni da sole e capelli davanti alla faccia, si muove come se fosse il più figo della Terra e non ha importanza se sia vero o meno, non ha mai avuto importanza, neanche ai tempi di Wasting the Dawn, perché lui ci crede sul serio e riesce a farlo credere pure a noi. Soprattutto alle numerosissime donne, tutte con gli occhi a cuoricino. Jirki 69 è eterno, così come i Sisters of Mercy, i Fields of the Nephilim e pure i Ramones, che omaggia con una riuscitissima cover di I Just Want to Have Something to Do. Fanno quasi solo pezzi vecchi, i classiconi, quelli dei video, The Chair, Gothic Girl, Brandon Lee, Dance d’Amour, e soprattutto Wasting the Dawn, i miei diciotto anni che ritornano su di colpo, e mi sento di nuovo fortissimo, immortale e con un fottìo di capelli. È stato uno dei migliori concerti di tutto il Wacken, per gli stessi motivi per cui lo è stato quello dei Tiamat due anni fa, sempre sullo stesso palco.

Avantasia

Sono rimasto fino a tardi per gli AVANTASIA, ma non mi sono scollato dal palco dei 69 Eyes e quindi mi sono perso l’inizio. Poco male però, perché la gente ha iniziato a sfollare e quindi riesco comunque a piazzarmi piuttosto avanti. Sul palco Tobias duetta con un laido Geoff Tate in versione cowboy del Male, ed è difficile dire chi dei due abbia la voce ridotta peggio. A un certo punto appare (è il termine esatto) Bob Catley e quello davanti a me esclama: “Canta proprio bene Gary Numan”. Lui è ormai una cariatide, fa pure tenerezza, la voce è un ricordo di tempi passati e l’aspetto è quello di uno spettro di un romanzo gotico. Tra i vari ospiti c’è anche Chiara Tricarico, la cantante di uno di quei gruppi da Sanremetal di cui non ricordo il nome. A una chitarra c’è Sascha Paeth, all’altra un tizio impostatissimo che sembra Edoardo Bennato. La Tricarico fa la parte finale di Farewell, quella che in originale faceva Kiske, della cui meraviglia avevo parlato qua, e onestamente la cosa non mi ha preso benissimo. Poi parte un’altra canzone di cui non mi frega un cazzo e giungo alla conclusione che gli Avantasia sono uno di quei gruppi che ha un criterio sballatissimo di scelta delle scalette. Fanno Lost in Space, e ancora nella mia testa invoco Michael Kiske, perché nessuno dovrebbe mai cantare le parti di Michael Kiske, dopodiché all’ennesima canzone di cui non mi frega un cazzo vedo che mancano dieci minuti e inizio a guadagnare l’uscita, perché it’s a long way to the albergo e sono quasi le due di notte. L’ultima è il medley Sign of the Cross / The Seven Angels, che mi gusto con un piede fuori e uno dentro. Dopodiché parte il grande spettacolo di fuochi d’artificio, ma a quel punto sono già in fila per il pulmino verso il parcheggio.

SABATO

Dragonforce

L’ultimo giorno teoricamente comincerebbe presto, ma dopo la tirata tardi del venerdì non me la sento di presentarmi alle undici di mattina per vedere Tankard, Raven e Wolf, quindi ci presentiamo direttamente alle tre e mezza per i DRAGONFORCE, che becchiamo proprio mentre stanno suonando Soldiers of the Wastelands. Confermo quanto già detto: lo scherzo è bello quando dura poco. Inoltre capisco che, nei Dragonforce, il cantante non sia il punto della questione, ma uno con un minimo di personalità prima o poi potrebbero pure provarlo. La cover di My Heart Will Go On di Celine Dion esce bene, loro tanto hanno sempre la stessa linea ritmica, almeno qui hanno una melodia che funziona, diciamo tipo Padre Cryo dei San Culamo. Dopodiché, dato che la loro cifra fondamentale è insistere nello scherzo finché non fa più ridere, ecco un’altra cover, questa volta di Taylor Swift, canzone che io non conosco e che peraltro fa schifo. I cabinati arcade ai lati del palco e i draghi gonfiabili rendono tutto ancora più stucchevole, vedi discorso fatto un po’ più sopra.

Testament

A questo punto inizia a piovere, come il meteo aveva promesso. Ci arrischiamo lo stesso a guardare SEBASTIAN BACH, anche lui alle prese con una scaletta incentrata sui vecchi cavalli di battaglia. Tutto molto bello, ma purtroppo ci troviamo costretti a ritornare al coperto nel tendone dell’area stampa per evitare di sprofondare nel fango. Dopo un po’ però smette, quindi ne approfitto per guardarmi un po’ di TESTAMENT, che spaccano tutto come al solito. Mi godo Curse of the Legion of Death e Alone in the Dark, bestemmiando contro la pioggia che mi ha fatto perdere gran parte della loro esibizione.

In cerca di qualcosa da mangiare capitiamo davanti al palco degli SVARTSOT, classico gruppo folk metal come tanti, gradevole da ascoltare anche se i suoni lasciano a desiderare. Sembrano tutti vichinghi a parte il bassista, indiano, il che è straniante. Poi ripassiamo dai Tir Saor per collassare su una balla di fieno. Tre-quattro stronzi si mettono per terra a vogare, e io ce li metterei sul serio su una galera turca a prendere frustate se non tengono il tempo.

Thyrfing

Quindi insomma, ci sono i THYRFING, e io sono già stanco, come direbbe Gandalf, ma ce li vediamo lo stesso, perché sono i Thyrfing. Poi andiamo verso il lontano Louder, dai CRADLE OF FILTH, che suonano in rapida successione The Principle of Evil Made Flesh, Cruelty Brought Thee Orchids, Dusk and Her Embrace, Nymphetamine, Born in a Burial Gown e il singolone Her Ghost in the Fog. Bella esperienza, nonostante la voce di Dani che è quella che è, e lui si dimentica pure le parole, ma fa in tempo a lamentarsi del pubblico tedesco che tende a rimanere immobile come se stesse ascoltando un discorso di Mattarella. È comunque difficile rendere la loro atmosfera da brughiera spettrale al Wacken sotto la luce del tardo pomeriggio, e quindi tutto si risolve in una sparata death-thrash. Buona la nuova tastierista, e penso che avere una tastierista-cantante sia un bel passo avanti rispetto alle coriste-ballerine che si fanno scopare dai roadie altrui, e chi era presente al Gods of Metal del 2001 capirà il riferimento. Per i tempi stretti non riescono a chiudere con l’annunciata From the Cradle to Enslave, canzone a me molto cara, come già scrissi.

Amon Amarth

Non capivo perché ai Cradle of Filth fossimo così pochi, ma quando ci allontaniamo dal loro palco tutto mi è più chiaro: in contemporanea ci sono gli incomprensibili AMON AMARTH, che hanno attirato la grandissima parte del pubblico del Wacken. Certe volte le dinamiche del successo di certi gruppi sono imperscrutabili. Ne ascoltiamo cinque minuti a una distanza siderale dal palco, manco fossero i Korn, e penso che musicalmente non sono niente di diverso dal classico gruppo nordico che vedi al palco piccolo tranquillo insieme ad altre 5-600 persone, però peggiori. Qualcuno dovrà spiegarmi il loro successo, prima o poi.

Primordial

Torniamo alle cose serie con una delle migliori esibizioni di tutto il Wacken: i PRIMORDIAL, a cui assistiamo in pochissimi perché, come detto, quasi tutti erano accalcati da quei caconi degli Amon Amarth. Il concerto è stato indescrivibile, come sono indescrivibili anche loro, e intendo letteralmente: che musica suonano i Primordial? A che genere, o sottogenere, appartengono? Probabilmente aveva ragione quel lettore che, tempo fa, scrisse che sono un gruppo epic metal, per quanto peculiare e unico. Ed epici lo sono davvero, gli irlandesi, con i loro ritmi ipnotici e la loro atmosfera da trance sciamanica, primordiali come il loro nome promette. E su tutto si staglia maestoso Alan Nemtheanga, la sua voce, la sua fisicità, che mette paura sul serio. Siete mai stati in curva, in mezzo agli ultras? Avete presente quei capiultrà che, se non canti i cori con gli altri, prima ti imbruttiscono e poi ti vengono a gridare in faccia di cantare? Nemtheanga è identico, e quando ti dice di tenere il tempo con le mani sembra che ti stia fissando negli occhi, con quel fare minaccioso e il suo approccio da condottiero tribale. Capisco che su disco spesso possano risultare indigesti, ma quello che i Primordial riescono a fare dal vivo ha pochissimi paragoni.

Mayhem

Il Wacken sta per finire col botto, perché ci sono i MAYHEM al Louder. Per loro vale tutto quello che scrissi a proposito di quella volta all’Alcatraz: sono diventati un tributo a sé stessi, che è il miglior modo in cui potevano finire. In questo senso anche Daemon, il loro ultimo sciapito album, assume un suo senso. Così il loro concerto è un percorso all’indietro, verso le loro origini: iniziano con i pezzi “nuovi” (Malum, Psywar e Illuminate Eliminate), poi passano a Chimera e, infine, Crystalized Pain in Deconstruction (da Grand Declaration of War). Noi arriviamo in questo momento, un po’ perché sapevo che il bello sarebbe venuto alla fine e un po’ perché per niente al mondo mi sarei perso un minuto dei Primordial. Quando arriviamo Attila, per omaggiare le ambientazioni marziali del suddetto album, è vestito come la caricatura di un soldato, e mi ha ricordato Rolento, un boss di fine livello di Final Fight, che peraltro era velocissimo e quindi noi da ragazzini lo chiamavamo Roveloce. Il concerto è diviso in sezioni, una per ogni disco (quantomeno da quando abbiamo iniziato a vederlo noi), e tra una sezione e l’altra partono degli splendidi montaggi sui megaschermi. È il turno di Ancient Skin, dal meraviglioso Wolf’s Lair Abyss, Attila si è tolto i vestiti da sergente malvagio e tutta la band torna sul palco incappucciata. Ancient Skin, lo saprete, è parecchio veloce e brutale, come tutto il suddetto Ep, e la combinazione suoni orribili / volumi ingiustificabilmente alti fa sì che non ci si capisca niente e che le orecchie siano a tanto così dal sanguinare. Io riesco a riconoscere il pezzo solo alla fine, e sì che quel disco lo so a memoria. Mia moglie è inorridita e mi avverte che, se continua così, lei mi aspetterà nel placido silenzio dell’area stampa. “Abbi fede, luna del mio cielo, fra poco arrivano al De Mysteriis”. E così è. Anticipati da cinque minuti di montaggi video con commoventi immagini del periodo, le voci di Dead ed Euronymous, i filmati della loro casa nella foresta e dei concerti nelle cantine della Mitteleuropa, gli estratti del Capolavoro calano su di noi un manto di sinistra oscurità. Freezing Moon, De Mysteriis dom Sathanas e Funeral Fog vengono riproposti in maniera liturgica da una band consapevole della propria importanza e del proprio significato, con Attila che interpreta alla perfezione il ruolo di sacerdote del Male. Nel culmine del trasporto emotivo, mi accosto a mia moglie completamente rapita dalla rappresentazione e le dico l’unica cosa al mondo che potrebbe spezzare la magia: “Ma lo sai che il cantante è quello che cantava Kaponani Monyok?”. Strabuzza gli occhi. “Ma chi, quello? Ma sul serio?”. Eh sì. Parte l’ultima sezione del concerto, quella su Deathcrush, con il consueto montaggio video sui megaschermi. Portano una batteria più piccola sul palco, e capiamo il perché solo dopo: Hellhammer non c’è più, e neanche Attila; al loro posto Manheim e Messiah, batterista e cantante della primissima formazione. Il primo fa il suo dovere, diciamo, il secondo è un pesce fuor d’acqua e passa tutto il tempo impettito con le braccia conserte, avvicinandosi al microfono solo per gridare le sue liriche. Fanno Deathcrush, Necrolust e Pure Fucking Armageddon, a un certo punto torna pure Attila per duettare con Messiah, e dato che ormai l’atmosfera è molto più prosaica aspetto i momenti di silenzio per gridare MONYOOOOOK!!! KAPONANI MONYOOOOOK!!! con tutta la voce di cui sono capace dopo quattro giorni di festival. Poi finisce tutto come deve finire: con la stanchezza, la soddisfazione, le orecchie che fischiano e le quantità sconvenienti di birra e carne di maiale che chiedono maleducatamente il conto. Il Wacken è finito, andate in pace. (barg)

8 commenti

  • Avatar di Bonzo79

    Bellissimo report!

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  • Avatar di Cpt. Impallo

    Lo ammetto: sono uno di quelli che giustifica ‘sta cazzo di moda di merda del vogare ai concerti col sofisma “Eh ma pure il pogo e lo stagediving erano malvisti dalla vecchia guardia”. O meglio, ovviamente mi fanno venire il mal di stomaco (ai Party Cannon al Frantic la gente s’è messa a fare a gara di flessioni, per dire), ma poi mi ricordo che quando IO avevo 18 anni mi buttavo per terra a pancia all’aria a fare airguitar ogni volta che partiva Fucking Hostile; e mi ricordo anche che, per una buona decina d’anni, ragazzini ai concerti non se n’è sono visti, e mi pigliava male ad essere il più giovane in sala a trent’anni.
    Quindi boh, che i ragazzini facciano i ragazzini, io sono solo contento che abbiano ricominciato ad apparire ai concerti: mai come ora al metal serve nuova linfa vitale.
    Quello che mi preoccupa semmai, e che giustamente preoccupa anche Barg, è che l’aspetto “memetico” del metal vada ad oscurare la parte musicale, che è ovviamente la più importante. Perché è facile ridere dei mutandoni pelosi dei Manowar o delle buffonate di Abbath, e d’altro canto il grottesco ha sempre fatto parte del DNA del genere; ma è altrettanto facile, purtroppo, dimenticarsi che dietro le pose pagliaccesche c’erano I DISCHI.

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    • Avatar di trainspotting

      Il problema è che a vogare, picconare, girare coi peluche etc non sono ragazzini, ma gente ben oltre i trenta. Anzi, tendenzialmente i ragazzini li vedo molto più seri rispetto ai suddetti

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      • Avatar di Ciccio Russo

        Peraltro i ragazzini li vedo molto più concretamente attivi della generazione degli attuali trentenni, che si è vista assai meno ai concerti. Girano, suonano, fondano gruppi, vanno a vedere anche le band più sfigate. Forse è la fame di vita dopo aver trascorso i propri 15 anni chiusi dentro come polli. E sono vestiti male, grezzi, con magliette di due misure più larghe e i jeans lerci, laddove quelli di non molto più grandi sembrano prestare un’attenzione spasmodica al loro aspetto fisico. Speriamo bene. Quanto al vogare, la differenza fondamentale col pogo è che nel pogo puoi farti male sul serio (all’ultimo concerto degli Exodus ho lasciato un legamento del ginocchio e sì, avete ragione, a 43 anni è ora di finiamola), il che lo rende una sorta di rito di passaggio.

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  • Avatar di Rob

    Quando un gruppo è parodia non riesco a farlo mio, lo vedo come un pessimo attore in una sit-com. L’esempio invece fatto su Jyrki (e come lui lo si potrebbe dire di un Malmsteen, o dei Manowar di fine ’90) e di quegli artisti che vivono il “personaggio” 24h al giorno, per quanto paradossali riescono più credibili, e con essi la loro musica.

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  • Avatar di weareblind

    Tutto, ma “cringiata” no. Non possiamo lamentarci dei 50enni che vogano, e poi cringiamo.

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  • Avatar di Orgio

    Heavy meddle or no metal at all.

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  • Avatar di Snaghi

    Vabbè, ritardo accettabile dai. Ho provato a sentire sti feurercosi, ho capito perché ti sei incazzato

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