Avere vent’anni: dicembre 2003

KEEP OF KALESSIN – Reclaim

Griffar: Quattro anni dopo il fin troppo elaborato secondo album Agnen/A Journey Through the Dark – strapieno di buone idee utilizzate in modo talvolta troppo dispersivo – ritornano i norvegesi Keep of Kalessin, alfieri del fast/symphonic black metal a partire da Armada (2006) in avanti. In questo episodio, un EP non brevissimo di quattro pezzi più intro, il gruppo si fregia della performance vocale di nientemeno che Attila Csihar, il quale conferisce alle composizioni il suo inconfondibile marchio di fabbrica. Ma è proprio l’impostazione dei pezzi che anticipa la direzione futura del gruppo. Brani velocissimi, melodici, quasi cinematografici, in grado di evocare scenari catastrofici di distruzione totale. Sebbene “sporcato” da qualche traccia di death melodico (l’intermezzo di Come Damnation, per esempio), ciò che regge in piedi la musica del gruppo norvegese è l’eccellente black metal melodico suonato a tutta velocità che abbiamo più volte potuto apprezzare nel corso degli anni. Come già ho scritto in altre occasioni non capisco perché siano considerati derivativi o di secondo piano: è (almeno) dal 2003 che i Keep of Kalessin suonano in questo modo, e a farlo bene come loro sono assai pochi. Episodio notevolissimo, da recuperare.

TRONUS ABYSS – Kampf

Michele Romani: Che i Tronus Abyss siano sempre stati un progetto piuttosto atipico all’interno della scena estrema italiana si era capito sin dall’esordio del 1998, The King of Angels in the Abyss, l’unico disco dal retaggio black metal ma comunque piuttosto originale per l’epoca. Il seguente Rotten Dark era un manifesto di puro folk medievale (una sorta di versione italiana dei Pazuzu), mentre con questo Kampf Atratus e soci si spingono ancora oltre, attingendo ad elementi tipici del dark ambient e del folk apocalittico, con quel tocco medievaleggiante che è sempre stato il loro marchio di fabbrica. Non è un disco facile, Kampf, e avrebbe bisogno a mio parere di più di un attento ascolto per essere compreso appieno: rigorosamente in cuffia a volume alto, perché si fa fatica a capire bene le litanie in italiano di Atratus, a causa di una registrazione della voce non proprio perfetta. Per il resto ci troviamo di fronte a quello che considero il lavoro migliore della band torinese, con due pezzi assolutamente da brivido come Mabuse e L’Eredità del Cinghiale.

HETROERTZEN – A Crimson Terrible Vision

Griffar: Del dicembre 2003 è anche il secondo album dei cileni Hetroertzen, già lodati l’anno scorso. Lodi che ribadisco perché, partendo già da una buona base, i ragazzi stavano migliorando, e A Crimson Terrible Vision ne è la riprova. La sola opener Engel der Pest vale l’acquisto: un up tempo che fa tremare i polsi con tanto di assoli obliqui, strani, corrosivi. Dopo essersi trasferiti in Svezia, gli Hetroertzen hanno propeso per incattivire i brani, velocizzarli, complicarli nelle partiture, anche perché l’abilità tecnica era migliorata. Qui cominciano a vedersi i primi saporiti risultati, perché quando si scaraventano a velocità da delirio offrono lo spettacolo più pirotecnico. Poi, naturalmente, non è che picchiano e basta; conservano quella tipica attitudine sudamericana che venera l’heavy metal classico e questo si sente sia negli stacchi thrash sia in quelli mid-tempo 4/4 che ti fanno disarticolare la cervicale quando li ascolti dal vivo (o nello stereo) e ancora nei fill di chitarra solista in ogni brano. Non si addentrano ancora nel religious black, come faranno qualche tempo dopo; ciò che troviamo in A Crimson Terrible Vision è furioso, freddo e tempestoso black metal di eccellente fattura proposto da un gruppo che secondo me non ha ancora ricevuto tutte le attenzioni che merita, quindi penso che vi romperò le palle ancora per un pezzo cercando di convincervi ad ascoltarli. Black metal da manuale che tra l’altro gode di produzione eccellente, suoni di caratura superiore e linee di basso che spaccano il culo ai passeri. Mi chiedo io: come cazzo fate ad ignorarli? Siete masochisti, ravvedetevi. Questo disco fa spavento: per intensità, convinzione, creatività, per tutto quanto uno possa chiedere a un disco black metal.

ULVER – Svidd Neger

Giuliano D’Amico: Seconda (e, se non mi sbaglio, ultima) fatica alimentare degli Ulver prestati al cinema, Svidd Neger segue quel Lyckantropen che aveva ben sviluppato le migliori intuizioni melodiche di Perdition City e di tutto quel periodo post-black metal, senza però riuscire a cavare molto dal buco. Il film credo di averlo intercettato al cinema in Norvegia, ma non ne ho alcun ricordo, il disco non lo ascoltavo da, appunto, vent’anni. A risentirlo oggi ho subito capito il perché: come per la maggior parte delle colonne sonore, una volta sradicate dal loro contesto perdono completamente di senso. Purtroppo, questa volta non ci sono né melodie di pianoforte né atmosfere ambient a salvare il disco; restano una serie di commenti sonori troppo frammentari e troppo eterogenei per farne un album ascoltabile. A ritrovare il film, chissà, forse potrei cambiare idea.

TRAUMA – Imperfect like a God

Griffar: Il 2003 è stato l’anno del ritorno dei polacchi Trauma con il terzo Imperfect like a God. Attenti a non confonderli con altre band: solo nel metal ce ne sono circa una ventina che si appellano allo stesso modo. Questi Trauma sono un pregiatissimo gruppo di death metal di stampo europeo, quello che ha i campioni nei belgi e negli olandesi ma che fortunatamente ha fatto proseliti anche altrove. Distantissimo sia dalla scuola americana che da quella scandinava, il loro death metal è un furioso susseguirsi di riff spaccaossa, triturati essi stessi da miriadi di stacchi, pause, aperture insospettabilmente melodiche, riff armonizzati, cambi di tempo repentini e quasi sconnessi. I riff sono studiatissimi, rifiniti, limati e arrangiati con una padronanza tecnico-compositiva ben superiore alla media. I suoni poi sono perfetti, gli assoli di chitarra lancinanti sì ma quasi memorizzabili. Per questo mi spiace dover ripetere per la millesima volta il discorso già fatto in precedenza: è assurdo che i Trauma li conoscano in pochissimi, nonostante in passato altra gente come me ne abbia tessuto le lodi in modo sperticato, trovando da parte dei lettori solo un blando, per non dire nullo, interesse. È assurdo ignorare proposte di questo livello solo perché si ritiene che il loro blasone non sia paragonabile a quello dei mostri sacri, perché Imperfect like a God si mangia a colazione quasi tutta la produzione anche non recentissima dei succitati Morbid Angel e Deicide. Per non parlare degli Entombed, uno strazio. Se volete ascoltare VERO death metal, fatto come si dovrebbe sempre fare, sono i Trauma che fanno al caso vostro, non le uscite stantie fatte per rispettare un contratto da rockstar imbolsite e demotivate.

MORRIGAN – Celts

Griffar: Se ascoltate Celts capirete perché, recensendo Anwynn l’anno scorso, avevo scritto che i tedeschi Morrigan ormai sono un altro gruppo. I Morrigan sono stati gli unici in grado di giocare nel campo dei Bathory epici e uscirne trionfatori. Lo stile è esattamente quello, pagan black metal fortemente influenzato dalle tradizioni locali sublimemente traslate in musica. Giant of Stone è meravigliosa, ma tutto l’album, nonostante una lunghezza considerevole – 66 minuti, con tanto di intro arpeggiata acustica molto lunga come solo Quorthon aveva saputo fare in modo così egregio – è di una bellezza struggente, anche quando vengono riportate alla luce le partiture del primo periodo bathoriano in sfuriate minimali e furibonde (Warstained Iron), che oggi chiameremmo war black metal. Qua e là si possono fare anche paragoni non arditi coi Nachtfalke (nel primo disco, specialmente) e i Graveland (era Thousand Swrords/Following the Voice of Blood), ma il vero punto di riferimento è il gruppo del compianto artista svedese. Si badi bene: i Morrigan non hanno mai copiato i Bathory, hanno semplicemente reinterpretato quella musica secondo una visione più preistorica/medievale delle leggende della Germania. Il risultato è straordinario e lo è stato nel corso di tutta la loro carriera, interrotta due volte: dapprima nel 2010, per ritornare nel 2013 con due dischi consoni al loro livello; e poi nel 2014, e si pensava in modo definitivo. Visto quant’è mediocre Anwynn, forse sarebbe stato meglio. Celts è veramente un capolavoro, non è un aggettivo buttato qui a casaccio.

NACHTFALKE – Land of Frost

Michele Romani: Nel gruppo Telegram di redazione, parlando con Griffar della recensione di Land of Frost, si scherzava sul fatto che avrei potuto ricopiare direttamente quella del precedente Doomed to Die, considerato che il leader, l’ex Moonblood Occulta Mors, non ha proprio il dono della varietà nel comporre i suoi dischi; il che poi non deve essere per forza un difetto. I Nachtfalke una cosa sanno fare e l’hanno fatta sempre piuttosto bene, ossia dare vita a un puro pagan black metal vecchia scuola senza tanti fronzoli, come oramai purtroppo si sente sempre più raramente. Se proprio vogliamo andare nel dettaglio, il disco in questione si basa più sui mid-tempo epici (la title track praticamente è un brano epic metal) rispetto alle componenti black tout court che risaltavano più nel precedente, anche se lo stile fondamentalmente è sempre lo stesso. Brani come la clamorosa opener The Windlords o Berserker sono un perfetto esempio di come questo genere vada suonato, e i Nachtfalke lo sanno fare dannatamente bene.

BRUTUS – Slachtbeest

Griffar: Il debutto degli olandesi Brutus rimane un monolite nero nella storia del brutal europeo, un album di rara violenza che lascia attoniti per come si possa suonare brutal death con precisione quasi sovrannaturale, tecnica invidiabile e forza d’urto pari a una catastrofe. Slachtbeest è un disco fuori di sé, imprevedibile in ogni sua parte perché non si riuscirà mai ad indovinare cosa verrà dopo il tale stacco o il tal altro: potrebbe essere l’ennesimo grandioso riff in tremolo, qualcosa di più tecnico, magari un rallentamento, un passaggio in tempo dispari. Assieme ai conterranei Pyaemia, ai Disavowed e ai Prostitute Disfigurement, il massimo del brutal europeo. Il batterista faceva spavento, sfortunatamente ha deciso di farla finita buttandosi sotto un treno e io mi chiedo come sia possibile che una persona dalle simili capacità e dal simile immenso talento possa gettare la spugna in questo modo. Slachtbeest ha avuto un seguito solo tredici anni dopo con Murwgebeukt, una specie di brutal death fiction divisa in tre capitoli ma, almeno per quanto mi consta, neanche lontanamente accostabile a questo vertice. Altra particolarità: nel CD i testi non ci sono, ma era arcinoto che trattavano di stuprare e uccidere donne. Ci pensate uscisse oggi una roba del genere? Li deporterebbero in un campo di rieducazione nordcoreano seduta stante. Al momento non si sa se siano ancora attivi, ma credo sia improbabile.

FROSTKRIEG – Majestätik Eines Kalten Elements

Griffar: Majestätik eines kalten Elements è l’impegnativo titolo dell’unico full che i tedeschi Frostkrieg hanno pubblicato nel corso di una storia iniziata nel lontano 1991 e terminata una decina d’anni fa o qualcosa in più (l’ultimo lavoro è lo split con Darkthule e The Shadow Order, 2010). Com’era però prassi per queste band tedesche fieramente radicate nell’underground, la band ha al suo attivo svariati altri lavori: un EP, quattro split e due demo/CD-R. Tutti naturalmente limitati a poche copie e difficilissimi da trovare già all’epoca della pubblicazione, mortacci loro. Essendo nati all’incirca quando il black metal stava muovendo i suoi primi passi, ciò che dovete aspettarvi è il classicissimo old style, con riff connotati da melodie magari non particolarmente ruffiane o di facile presa ma comunque ben evidenziate e spesso impostate su stilemi retro-thrash. Non temete, c’è anche molta velocità e grinta, eh! Anche la voce non è il classico screaming, ma più un digrignare accostabile ai primi Beherit. Innumerevoli fill di chitarra elevano di tono i pezzi, e rare e non invadenti tastiere aggiungono sfumature agli arrangiamenti. Però non intendete male, l’intenzione è di proporre black minimale, ben studiato e costruito altrettanto, e il suo maggior pregio è indubbiamente questo. Uscì dieci anni dopo l’esplosione effettiva del black metal, ma con tutta probabilità i pezzi nella scaletta sono stati composti in tempi ben antecedenti, perché qui aleggia lo spirito dei primi anni ’90 dal primo all’ultimo secondo, e Majestätik eines kalten Elements è un dannatissimo album sontuoso con le palle fumanti.

THE OFFSPRING – Splinter

Gabriele Traversa: Anche Splinter, come Take a Look in the Mirror e One Crimson Night, mi fu regalato appena uscito, in quel formativo inverno del 2003, così lontano cronologicamente ma al contempo così vivo nella mia memoria di ascoltatore. Purtroppo qui il discorso cambia, e se i due dischi sopracitati non abbandonarono il mio stereo per un bel po’, questo qui lo fece piuttosto in fretta. Eh già, il giochetto di concentrarsi sullo scrivere musica per surfisti californiani in cerca di fregna era funzionato benissimo con Americana e dignitosamente col successivo Conspiracy of One, ma qui qualcosa si era già rotto. Persino il singolone mtviano Hit That non vale una gamba di Pretty Fly (for a white guy) o un malleolo di I Want You Bad. Un disco di maniera e sullo spompato andante ma che strappa la sufficienza piena perché il mestiere c’è ancora, e Spare Me The Details (che all’epoca noi tredicenni ribattezzammo simpaticamente: Sparami i ditalini) è simpatica, oltre ad essere perfetta colonna sonora per un film romantico americano dove lei è una figa e si innamora di un cazzone segaiolo bruttino che al primo appuntamento, per l’emozione, le vomita addosso.

FUNERAL FEAST – Genocide ad Nauseam

Griffar: Giunto dopo una consistente gavetta sfociata nella pubblicazione di quattro demo, Genocide ad Nauseam è l’esordio dei finlandesi Funeral Feast nonché l’ultima opera a loro ascrivibile. Uscì per Northern Sound, che aveva un certo intuito nello scovare band che proponessero qualcosa di diverso rispetto a ciò che imperava. Che oggi ibridare il black metal con il death americano (Deicide, Angel Corpse e similari) sia già stato fatto una barca di volte è fuor di dubbio, tuttavia nel 2003 il blackened death metal, o quello che in seguito è stato chiamato così, era abbastanza inusuale. Ci si dedicarono quattro ragazzi del profondo Nord (il batterista è stato nei Torsofuck e, per dieci anni, anche negli Archgoat) ottenendo un discreto risultato. Ritmiche serratissime, spezzettate, strapiene di armoniche artificiali, stop’n’go, repentini cambi di tempo e velocità, armonie presenti ma non immediate. Otto pezzi (più insignificante interludio) tendenzialmente brevi, contraddistinti da quella frenesia e quel nervosismo tipici del modo di suonare americano amalgamato con l’impostazione cupa e fredda del black finlandese. Manca a mio parere una più accentuata diversificazione compositiva, giacché non è insolito che nel corso dell’ascolto si abbia l’impressione di aver già sentito altrove nel disco quel particolare stacco o passaggio. Rimane comunque un titolo da considerare se vi piace riscoprire uscite underground rimaste storia a sé, perché di loro non esiste traccia da tempo immemore.

ISVIND/ORCRIST – Kuldedød / Det Hedenske Norge (split 7’EP)

Griffar: Se ci riuscite, immaginate l’entusiasmo dei blackster che nel 2003 avevano avuto l’anticipazione del ritorno degli Isvind, autori sette anni prima di uno dei più iconici album del black norvegese, ovvero Dark Waters Stir. Sette anni di silenzio e poi il ritorno, quando pochi ancora ci speravano. Immaginate poi un oscuro gruppino italiano attivo da circa tre anni, autore di una sfilza di demo spacciate ai concerti che all’epoca in Italia abbondavano, ma comunque residenti nel più profondissimissimo underground; e questo gruppino, non si è mai saputo come, ha l’occasione di esordire nel mercato discografico “che conta” grazie a uno split con nientedimeno che una leggenda norvegese; per Hearse per di più, etichetta di Ildjarn/Nidhogg, Chelmno e di vinili da culto con gente come Sargeist. Poi arriva il disco, e l’entusiasmo scema radicalmente. Entropi, il pezzo degli Isvind, è veramente poca cosa se paragonato al capolavoro di sette anni prima; non brutto, no, però neanche lontanamente all’altezza delle aspettative: prevalentemente mid-tempo di derivazione black thrash, assolo di chitarra, fill di batteria continui per fare intendere che il loro black metal si fosse evoluto e modernizzato. Mah. Det Hedenske Norge è il pezzo degli Orcrist e perde di netto il confronto con il pur non eccellente brano degli Isvind. Banale black metal in tremolo picking continuo, raw, vecchio stile e tutte queste belle cose qui, che vorrebbe essere cazzuto ma si rivela incapace di suscitare alcun tipo d’interesse. Scorre via come acqua in un torrente, senza lasciare memoria di sé. Gli ha comunque portato bene, perché da lì è partita una carriera che dura tuttora e che penso gli abbia regalato più di una soddisfazione. Gli Isvind invece sparirono di nuovo, probabilmente si sciolsero salvo tornare nel 2011 per un prosieguo di carriera lontanissimo dalle vette passate. Ricordo che ne fui profondamente deluso: lo tengo per mero collezionismo anche perché, sebbene ne esistano solo 300 copie, è tutto fuorché raro.

FIREWIND – Burning Earth

Barg: Il problema di Burning Earth è che non ha problemi. È tutto troppo perfetto, pulito, preciso, curato. Il debutto Between Heaven and Hell era un bel disco perché eterogeneo, massiccio, a tratti addirittura minimale, come nella bellissima omonima in cui chitarra e batteria fanno la stessa cosa per gran parte del tempo dandoti l’effetto di un martello pneumatico che ti perfora il cervello. Burning Earth invece è il classico disco power metal come ce n’erano tantissimi: certo meglio suonato e prodotto della media, ma nulla più. Una volta finito non ti lascia granché, e ho sempre avuto il sospetto che qui ci siano finiti gli scarti dei Dream Evil, l’altro gruppo di Gus G che suonava grossomodo sulle stesse coordinate e che, quantomeno all’epoca, era di tutt’altro spessore.

KLAGE – st

Griffar: Nei primi anni 2000, quando il black scandinavo stava palesando qualche crepa da sovraccarico per eccessivo sfruttamento, in Germania venne fuori una generazione di gruppi che, senza variare più di tanto gli schemi classici, li reinterpretava secondo l’ottica tutta tedesca delle armonie di chitarra. In questo loro sono maestri da sempre e, se applicato al black metal, i risultati non possono essere che notevoli. Questo termine però non gli rende merito, bisognerebbe usare aggettivi più orientati verso la definizione di eccellenza. Parlo di Kaltetod, Kargvint, Wigrid, Frostkrieg, Luror, Wolfsmond, Eternity… e ovviamente dei Klage, visto che è del loro debutto 7” che si sta trattando. Solo due pezzi per poco più di 10 minuti, uscito in appena 300 copie senza essere mai stato ristampato, ma è una di quelle pietre preziose che, nascoste, resistono al tempo in attesa che qualcuno le riscopra e ne goda la splendente brillantezza. Tutti questi gruppi preferivano pubblicare uscite centellinate limitate a pochi pezzi che andavano esaurite in un paio di giorni. Erano tempi nei quali l’hype per i dischi black metal ultralimitati era ai vertici: possedere un Santo Graal tipo Taste Our German Steel dei Moonblood era un vessillo da sbandierare in caso di battaglia a chi aveva più dischi o più lungo il cazzo, con buone probabilità di aggiudicarsi il singolar tenzone. I due pezzi dell’esordio dei Klage sono perfetti: puro, assoluto, incontrastato e incommensurabile black metal del quale godere in silenzio sorseggiando magari un Talisker senza ghiaccio, al buio, quando fuori fa freddo e magari scende pure un po’ di nevischio. Vale lo stesso anche per gli altri loro dischi, in tutto due full e due split prima che se ne perdessero le tracce, con mio sommo rammarico. Uscisse domani un loro nuovo lavoro lo comprerei a scatola chiusa, poi magari me ne pentirei ma tale è la mia venerazione per quella scena tedesca che tenterei pure di farmelo piacere, qualora non fosse all’altezza. Non credo ci siano speranze, risale al 2011 l’ultimo titolo in discografia, l’oblio ed il suo nero manto hanno oramai cancellato ogni traccia di sentiero.

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