Mettete gli occhiali da sole, è l’Apocalisse: GRAVE PLEASURES – Plagueboys

Facciamo che vi risparmio la tirata autobiografica, stavolta, che ci sbrighiamo prima e ci guadagniamo tutti. Però io alla musica dei Beastmilk di (ma non solo di) Mat McNerney, alias Kvohst, devo per davvero qualcosa. Fu una mezza delusione poi il primo disco dei Grave Pleasures stessi, nati sulle ceneri della formazione precedente. Buono, con paio di pezzi anche ottimi, ma dopo il Climax dei Beastmilk la secchezza della chitarra di Linnéa Olsson (metà delle The Oath, l’altra era Johanna Sadonis, poi nei Lucifer) per me non funzionava. Molto semplice. Divisero quasi subito le strade e Kvohst dovette reimpastare ancora una volta la formazione attorno a sé e al bassista Valtteri Arino. Di nuovo tra soli sodali finlandesi, tra i quali salta all’occhio la presenza di Juho Vanhanen degli Oranssi Pazuzu. Non solo all’occhio, perché in Motherblood le chitarre tornarono ad essere cupe e brillanti come nell’incarnazione precedente. Sei anni sono passati poi da Motherblood, piuttosto lunghi. Chi era rimasto irretito per lo meno da Climax e dal precedente attendeva assetato Plagueboys, il nuovo album. Almeno due dei tre singoli poi facevano sperare davvero molto bene. E ora che è uscito possiamo pure dircelo che ne valeva la pena, perché Plagueboys è riuscito almeno quanto Motherblood. Forse di più.
Un inizio come Disintegration Girl non può che rassicurarci subito. Ci sono tutti gli elementi che chiedevamo. Oscuro death rock, chitarre cavernose, synth (una novità), suoni e grammatica cugini stretti della migliore dark wave. Linee vocali che alla seconda volta che le senti ti si incollano in fronte. E poi le solite liriche visionarie e da disastro atomico (“Out of this desert nothing good will come”). Ora sappiamo che possiamo rilasciare il respiro: i Grave Pleasures hanno tirato fuori un disco eccellente, di quelli con cui crogiolarsi per un bel po’. Pessimismo cosmico, tutto nero, specie l’abbigliamento. Se uno scostamento c’è stato, è stato in direzione di una maggiore radiofonia ed orecchiabilità. Non è per niente un male. Per niente.
Non è un male, perché Kvohst, da bravo inglese, sa scrivere una canzone e una linea vocale come si deve. Io ci sento spesso qualcosa di Morrissey, perfino. Le sue, come dicevo, spesso alla prima volta che le ascolti ti esce un ghigno, storci un po’ il naso. Alla seconda non ce n’è per nessuno. Prendete Heart Like a Slaughterhouse, la corda di chitarra come una frusta tesa, invece la melodia malinconica ed immediata, quasi rassicurante. Grandissimo pezzo, ci ho messo un po’ a riconoscerlo. Il singolo precedente, Society of Spectres, era sia più ortodosso come brano death rock (che ritornello, signori) sia più sorprendente per quelle tastiere anni ’80 all’inizio. A me fanno pensare a quel suono sintetico mainstream che aveva adottato persino Springsteen (Tunnel of Love, ovviamente Born in the U.S.A.), suono che è tornato mainstream da un po’. Anzi, quelle tastiere di When the Shooting’s Done sono proprio cugine, che so, di quelle di I’m on Fire (ci devi una cover, Mat). Molto bella pure questa, gira inesorabile, sconsolata eppure leggera. Cita Joy Through Death, ci sta, ne è praticamente il seguito. Ci sta.
Non è una critica, anzi, la parola leggero. A pensarci descrive bene questo disco. Leggerezza, azzardo, calviniana. Paradossale, visto che è un disco goth e nei testi di speranza ce n’è pochina. Ma rispetto ai precedenti c’è forse meno compiacimento per la fine del mondo. Anche meno rabbia. Maggiore malinconia, invece. Plagueboys ha poi palesemente la voglia di parlare a più persone, con un tono più pacato. Tanto se l’Apocalisse non la nota nemmeno chi ce l’ha sotto agli occhi, urlare può essere controproducente. Plagueboys vuole piacere, e non solo a noi. Ha un brano ecumenico e magnifico come Lead Balloons. Recupera lessico e grammatica della new wave romantica (non new romantic), tipo U2, Mission, Echo & The Bunnymen, Sisters of Mercy, Depeche Mode. Facendo questo, di fatto potrebbe piacere anche al pubblico di Editors, White Lies, Placebo. Pure a quello che sa nulla degli anni ’80 o del black metal che normalmente suonano questi musicisti qua.
Sì, perché tutti e cinque i componenti hanno comunque una pagina su Metal Archives. Tutti e cinque sono invischiati in progetti di metal estremo. E i Grave Pleasures sono pure estremi, in qualche modo. Molto fascinosi, però. E ambigui. Anche nell’iconografia, schizofrenica, tra fotografia formato Instagram, tipe hipster sempre al centro nella scena nei video e Aleister Crowley un po’ qua e un po’ là. La grande beffa della realtà che non è tanto reale. C’è una lucidità nel disegno di McNerney. Avrebbe i numeri per fare dei Grave Pleasures un bel nome per siti ben più popolari di questo qui e di qualunque blog metal. Potrebbero avere un articolo sul Guardian come next big thing (non più tanto next). Suonare a festival grossi, di spalla a nomi grossi, fuori dal metal. Non andrà così, penso, e McNerney non si venderà le mutande. Non canterebbe mica cose come “Our bodies are destroyed / Annihilated for pleasure” e “Our violence is delight / Tape-recorded for playback / Dream-flesh of a different skin / Blunt trauma romantics”. Il mainstream lo evoca con sarcasmo. Il mainstream che ti convince che devi essere perfetto, passa in cassa e accomodati sul letto operatorio o al bancone in farmacia. Tutto in favore di diretta social.
Our home is a beast of ghosts / And we’re having a haunted dinner
This Chernobyl made of bones / We struggle to find grave pleasures
But the wasteland is shining bright / And desolation has no measure
No, non c’è granché speranza. Comunque i numeri per uscire un po’ di più dal nostro circondario (includiamoci anche l’ambiente goth) ce li hanno. Le canzoni anche, belle, alcune splendide. A guardare le statistiche di Spotify circa l’album precedente, sembrerebbe che per ordine di grandezza siano popolari oggi tipo Tribulation e Unto Others (a proposito di gruppi che flirtano col mainstream, più o meno). Lontanissimi i livelli di popolarità, che so, degli Editors (cinquanta volte tanto, almeno). When the Shooting’s Done sarebbe però perfetta per il palinsesto di Virgin Radio, se solo lo sapessero quelli lì. Noi intanto possiamo smetterla finalmente di rimpiangere Climax (uno dei dischi della vita, per il sottoscritto). Possiamo riconoscere che oggi i Grave Pleasures si sono confermati grandi, un gruppo leggero, ma oscuro, composto da metallari (e si sente). E metterci un bel paio di occhiali da sole per goderci la luce del fungo atomico, con l’anima un po’ più in pace. (Lorenzo Centini)
Climax, uno dei dischi della fine della mia giovinezza. Strange attractors è un pezzo che a volte utilizzo come modello relazionale rispetto alla propensione del tutto umana ad agire una ripetizione auto ed etero-distruttiva, “al di là del principio di piacere”.
Poi Motherblood mi aveva convinto che ci fosse ancora qualche cosa da dire.
Il disco in oggetto invece non mi ha preso. Non ancora, anche se ci ho provato due o tre volte.
Strange distractors?
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mi avete incuriosito. il pezzo in calce è delizioso, devo approfondire, pure i Beastmilk.
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Questo disco mi si è incistato nel cervello e non ne esce più
Bellissimo
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