Avere vent’anni: SONATA ARCTICA – Winterheart’s Guild

Se Ecliptica era un disco dallo stile immediatamente derivato dagli Stratovarius dell’epoca e Silence la sua conseguente estremizzazione parossistica, il terzo album dei Sonata Arctica segna il momento in cui Tony Kakko si ferma e cerca di fare il punto della situazione. La strada aperta da Silence non poteva essere battuta ancora per molto: troppa velocità, troppe poche chitarre, atmosfere troppo algide, insomma un disco che aveva senso come unicum ma le cui intuizioni avevano bisogno di essere diluite e riprese in modo non totalizzante.

Del resto i Sonata Arctica possono essere considerati una sorta di progetto personale di Tony Kakko, personaggio a suo modo eccessivo, volubile e testardo, con una poetica fatta di estremi e una visione del mondo a metà tra buoni sentimenti e misoginia aggressiva. In più c’è il rapporto col freddo, la neve e i panorami imbiancati, che a noi mediterranei evocano paradossalmente immagini di calore, con tisane calde bevute davanti al caminetto sotto alla coperta di lana, ma che uno che vive in una situazione climatica devastante come Kakko non può che accostare alla morte e alla crudeltà sadica della Natura. Andate a vedere dove si trova Kemi, città natale di Tony Kakko e degli altri, e ditemi se non ha più diritto lui a essere grim & frostbitten rispetto alla quasi totalità dei gruppi black mondiali. La differenza è che i Sonata Arctica non parlano di freddo, lo suonano; e riescono a trasporlo in musica come solo potrebbe fare chi ce lo ha davvero dentro di sé.

E così Winterheart’s Guild è un disco più normale dei primi due. Più personale di Ecliptica ma senza gli eccessi di Silence. Questa però è una considerazione che va fatta tenendo conto dell’insieme, perché poi a ben vedere la maggior parte dei pezzi presenti sarebbe potuta essere sul disco precedente. A dirla ancora meglio, soprattutto i pezzi migliori. Il terzetto iniziale è emblematico: Abandoned, Pleased, Brainwashed, Exploited è il classico brano veloce dei primi Sonata Arctica, senza riff e sorretto semplicemente da un abbozzato giro di tastiera dai toni vagamente natalizi; Gravenimage inizia come ballata e accelera di colpo, riportando alla mente la composizione obliqua dei pezzi lenti di Silence; The Cage è un altro pezzo veloce che parte sparatissimo con un assolo frenetico di tastiera e in cui la chitarra si limita a fare da accompagnamento. Dopodiché però le cose cambiano.

Senza fare un track-by-track, basti dire che Silver Tongue e Champagne Bath sono pezzi eccessivamente zumpettoni e allegrotti che stridono fortemente con ciò che avevano rappresentato i Sonata Arctica sino a quel momento. Più canonica Victoria’s Secret, che non parla di intimo femminile e che a parte il nome cretino è forse la canzone più natalizia e quindi più accostabile a Silence dell’intero album; The Ruins of my Life invece è più derivante dagli Stratovarius e riporta ai tempi di Ecliptica. Tutte le altre sono ballate: The Misery, Draw Me e Broken, citate in ordine crescente di apprezzamento.

Winterheart’s Guild in un certo senso sarebbe potuto essere un lavoro di transizione, ma considerando a posteriori la discografia dei Sonata Arctica sarebbe meglio considerarlo un nuovo inizio per il gruppo di Tony Kakko. Come detto, fu in quel momento che la band decise di ripensare la propria direzione. È un disco con alti e bassi, ma di cui circa la metà dei pezzi andrebbe di diritto inserita in un ipotetico greatest hits del gruppo lappone. Per gli appassionati di questo tipo di power metal rimane comunque imprescindibile. (barg)

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