Satana non si è fermato a Eboli: un giro nell’underground del Sud

Questa non la sapevo. Scopro l’altro giorno, cazzeggiando su internet a proposito delle fortificazioni di Reggio Calabria (non chiedetemi perché, ognuno ha le sue perversioni), che una delle pochissime testimonianze di uno dei fortilizi che sormontavano la città calabra è la rappresentazione che ne ha fatto Bruegel il Vecchio, nello sfondo del suo Trionfo della Morte. E pare sia tutto meno che un caso, anzi: in visita nel Meridione, il pittore assistette all’assalto compiuto dai pirati di Dragut (di cui credo il nostro Barg sia uno strenuo ammiratore, se ho imparato a conoscerlo). Rimasto segnato dall’esperienza, ne ripropose la visione in diverse sue opere, tra cui proprio nel quadro celeberrimo che, diciamo così, ha influenzato così tanto il nostro immaginario. Quindi la città in fiamme sullo sfondo, mentre eserciti di morti fanno scempio dei malcapitati, è proprio la Reggio Calabria che conosciamo noi. Quando insomma prenoterete le prossime vacanze, in cerca di acque limpide e refrigeranti dopo mesi di siccità e carestia, ripensate a quelle coste, così come ad altre gettonatissime mete balneari, come a terre ricche di storie ben più oscure di quanto non si ricordi.

Tipo la Sardegna, dove opera la vecchia conoscenza di Metal Skunk che risponde al nome di Fabrizio Monni. Il quale quest’anno ha innanzi tutto tirato fuori il nuovo demo, III, a nome ASCIA, ovvero il suo personale progetto DIY all’insegna di uno stoner motorhediano e più ancora highonfireiano. Anzi, questo dei tre usciti fino ad ora è quello che più si avvicina ai primi vagiti della band di Matt Pike. Ed è il più riuscito dei tre, calibrato e cazzuto dall’inizio alla fine, con pezzi che acchiappano già con titoli tipo Blood Bridge Battle, Samothrace e Into the Mosh of Kattegat, poi però la musica mantiene più di quanto promesso. Gli Ascia quindi sono pronti per il salto sul formato lungo. Magari anche per un bel test dal vivo. Ma sempre quest’anno poi Monni ha riaperto il feretro della sua creatura principale, i BLACK CAPRICORN, già abbondantemente trattati su queste pagine ma poi forse un po’ persi di vista. Tornati invece col nuovo Cult of Blood, notiamo subito come il suono si assomigli ora parecchio con quello di Ascia, grasso eppure asciutto, chitarre-cactus, basso e batteria secchi. Pochi svolazzi veramente psichedelici e arrangiamenti abbastanza monolitici (per me, un po’ di varietà avrebbe giovato). Se la copertina, e non solo, paga pegno al narco-necro-doom degli Electric Wizard, un titolo tipo Worship the Bizarre Reverend palesa anche altri riferimenti. Comunque c’è un’indolenza desertica, assolata (Giants of Prama), che ne fa qualcosa di più di un tributo mediterraneo al filone doom nord europeo. Vedete Godsnake Djamballah, appunto, un breve trip psichedelico, o Snake of the Wizard, una specie di singolo stoner. Il titolo dell’ultimo pezzo, Uddadhaddar, si riferisce a una popolazione antica dell’isola ed è quindi servita su un piatto d’argento la suggestione nuragica. Magari sarebbe fico approfondire la suggestione anche col suono. Comunque personalità i Black Capricorn ne hanno ancora. Speriamo non aspettino tanto prima di mettersi al lavoro su un nuovo disco.

Cambiando isola e spostandoci in territori pericolosamente griffariani, quest’anno non si sono riposati nemmeno i MALAURIU, siciliani che suonano black metal. E questo già di partenza fa venire certe aspettative. Parzialmente confermate dalla raccolta Ex Tenebris, in cui sì, a livello di suono, siamo sul raw black metal secco ed oltranzista, senza strumenti folklorici o effetti particolari, ma, per la declamazione sopra le righe dei versi necrofili in lingua madre, con un legame con Agghiastru e la sua scuola che è forse più che una banale suggestione. Splendida l’ultima, Putrefazione. Decisamente più inconsueto l’altro full, omonimo, pubblicato sempre nel 2022. Perché si tratta di una sorta di trip ambient per viaggi cosmici, found footage di canti folk, effetti inquietanti e declamazioni sopra le righe di qualche astrusa cerimonia alchemica. L’insieme, pur non essendo musica per tutti i giorni o per passare il tempo, in qualche modo funziona anche come ascolto piacevole. Anzi, molte atmosfere kraute si sposano veramente bene con la dimensione mediterranea (qualcuno ha detto Battiato?). Alla fine non siamo lontanissimi dagli Jacula. Però lasciatemi dire la mia: al netto della simpatia per il marchigiano Bartoccetti, non ho mai capito cosa ci fosse di interessante o fondentale nei suoi dischi. I Malauriu partono sicuramente da lì, ma evitano fortunatamente scelte lessicali o sonore che possano suscitare ironia. Ascolto sicuramente interessante ma non da consigliare a tutti. Infine i siciliani hanno da poco licenziato anche un EP, De Natura Obscuritatis, che mette insieme le due anime ma privilegiando la prima, il raw black. Quattro brani, due con titolo in inglese e due in latino. Delle tre uscite forse la meno interessante. Ma la copertina, fatta con pochi elementi semplici (chiodi che compongono una croce rovesciata) fa contenti noi, gente dai gusti semplici.

Lo so che abbiamo parlato dei siciliani BUNKER 66 veramente poco tempo fa, in un pezzo più incentrato su quel tipo di sonorità, ma poi subito dopo abbiamo scoperto che stavano per pubblicare una nuova uscita ed era troppo tardi per fermare le rotative. Comunque Of Night and Lust é ancora una volta uno split, più corposo di quello con gli Hellcrash. Stavolta assieme ai messinesi ci sono i germanici LUCIFUGE. E l’asse tra l’isola mediterranea ed il paese dei treni in orario non sembrava così foriero di cose buone dai tempi degli Altavilla e degli Hohenstaufen. Partono i nostri con due bastonate autografe ed una cover dei Motorhead. Poi è il turno di quelli biondi (presumo), ma le coordinate non cambiano tanto: speed thrash cattivo e black, alcolico e ignorante. Comunque, se i teutoni acchiappano alla grande con un pezzo come Warriors of the Night, praticamente NWOBHM masticata e risputata, sono i siculi a risultare più gelidi e taglienti. I riff di Mellhammer e Sulphorous Lust sono astuti, freddi e sadici.

È ora il momento di fare ammenda. Perché, amici lettori, si pensava di aver reso un buon servizio l’anno passato coprendo le uscite più curiose o significative. Eppure dalle ricerche sulla questione meridionale condotte per il presente articolo sono emerse alcune uscite che abbiamo colpevolmente tralasciato nel 2021. Non una, non due. Ben tre. Che volete farci. Cominciamo quindi subito a recuperare From the Graveyard, secondo album completo dei nuragici 1782. I quali una fetta di attenzione internazionale, nel settore, se la sono già guadagnata con l’esordio. Copertina con capro, candele, luna e teschi e noi siamo contentissimi già così. Anche la musica coerentissima, stoner doom essenziale. O meglio acido, drogato. Fuzz e wah wah, passo lento, voce disperata. Basso e batteria funebri. Non una luce. Nemmeno una vera e propria melodia. Riff su riff, molto buono quello di Inferno, che rischia gli Electric Wizard più che Argento e Goblin. Maggiore atmosfera nel finale, con In Requiem, ma io, opinione personale, apprezzerei maggiormente se i riff diventassero anche canzoni.

Un brano di Magharia si intitola Nuraghe, ma i BRETUS in realtà sono di Catanzaro. Anche questi ce li eravamo persi nel 2021. Ma in realtà da prima. Magharia è il quinto album. Siamo dalle parti dei Saint Vitus, quelli con Reagers, il quale pare però a tratti darsi il cambio con Danzig. Il suono invece è fragoroso e crunch, un po’ anni ’90, tipo certi Entombed, ma poco profondo. Album monolitico, sicuro di buon impatto, con un sottofondo blues. Anche qua in realtà fatica un po’ ad emergere una canzone o una melodia. Il brano conclusivo, omonimo, ci mette quel po’ di prog che non avrebbe guastato nell’impasto del resto del disco. La copertina, bella pure questa, ricorda il corredo grafico di A Classic Horror Story, che era l’unica cosa di quel film che mi sia piaciuta.

Infine, torniamo dove iniziava l’articolo. In una Reggio Calabria devastata dalle fiamme del pirata Dragut. È lo scenario ideale per l’esordio dei GARGOYLE che proprio dalla città sullo stretto arrivano. E il titolo dell’album dice praticamente tutto: Hail to the Necrodoom. Signori, niente di meno. Organi ecclesiastici, puzza di incenso e cimitero, riff doom, voci growl e accelerazioni black/death. Praticamente abbiamo trovato l’anello di congiunzione tra Abysmal Grief e Mortuary Drape. Stesso approccio barocco e necrofilo, marcio, putrescente e sopra le righe. Dinamiche in evoluzione continua. La chitarra (un po’ più) pulita ha venature goth ottantiane, quella più pesante in più di un passaggio si rifà alle costruzioni ed al suono di Euronymous al suo apice. Non parlo invano. Sentite i riff di The Whisperer in Darkness e Nosferatu. Un altro dei brani si intitola Necromantia e in effetti, non fossero italiani, avrebbero forse potuto essere solo greci. Io ve lo dico, è davvero un peccato non averli scoperti nel 2021 perché un posto nelle classifiche, non solo la mia, l’avrebbero guadagnato sicuro. Intanto si fa sempre a tempo a recuperare, rovistando tra tombe e sepolcri. (Lorenzo Centini)

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