Il promettente debutto dei BURNING LEATHER da Olbia

Leggendo il nome Burning Leather mi vengono in mente gli Oz di Mark Ruffneck, che così intitolarono il loro album alla reunion del 2010, e un raro brano dei Bathory incluso in una di quelle compilation anni Novanta chiamate Jubileum. Si trattava della seconda uscita, pubblicata nel 1993, e con precisione il brano era Burnin’ Leather.

Se si siano ispirati o meno a una di queste cose, non posso saperlo; in tal caso propenderei tuttavia per la seconda opzione, come suggeritoci dallo stesso Mario Spano, chitarrista e voce, già attivo nella one-man band black metal denominata Azagthoth.

Il terzetto è originario di Olbia e propone un thrash metal prevalentemente giocato sui tempi lenti, oltre che correttamente impostato sia nello stile sia nell’attitudine. La frase che ho appena scritto, ipoteticamente di poco conto, raffigura ben altro: è il fattore da cui sostanzialmente dipende la riuscita di un disco. Il primo passo sono le canzoni; se disponi di quelle dovrà necessariamente funzionare l’impostazione. Come dimostrarlo? Date un occhio alle innumerevoli band retro-thrash con batterista a briglia sciolta che sputa doppio pedale per due terzi del disco, e, a fianco, un cantante che azzarda un anonimo growl completamente fuori contesto. Quelle band sono impostate male. Potranno replicare i riff del 1986 ma inciampano puntualmente sull’impostazione, adottando scelte sbagliate.

I Burning Leather, per quanto risultino debuttanti sulla carta, azzeccano proprio questo. Il batterista è tecnicamente capace eppure adopera il doppio pedale solo all’occorrenza. Il cantante, Spano, al contrario opta per un cantato acido che pare una variante sul tema del primo Dave Mustaine; è immaturo, è migliorabile, ma è certamente più personale degli innumerevoli emuli di Paul Baloff o dell’ultimo Chuck Billy che ho avuto modo e pietà di rintracciare in giro. Probabilmente necessita di sviluppare un po’ più di carisma, ma le basi per non risultare semplicemente uno fra i tanti già si intravedono e ora dipenderà soltanto da lui.

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L’album riesce a suggerirci numerose citazioni senza scopiazzar niente in modo palese, in un mix fra furbizia, sana paraculaggine e classe sopraffina basato su riff taglienti ed arrangiamenti curati, mai eccessivamente vistosi; si bada alla semplicità e ogni cosa se ne sta perfettamente al suo posto. In termini di stile, Burning Leather va a collocarsi in un immaginario oscuro ed essenziale, a grandi linee influenzato dallo speed metal e che grossolanamente richiama certi cliché presenti in Ride the Lightning. Manca un po’ di quell’irruenza volgare e incontrollata che ci aspetteremmo da un primo capitolo; per capirci, il genere di scalino che percepisci all’istante passando da Kill ‘em All a Ride the Lightning. Buona l’opener così come l’eponima, aperta da una combo basso più cassa che pare travasata direttamente da Peace Sells. Non sarà certamente l’ultimo sentore proveniente da lontano, tant’é che Last Rites attacca con un delirio di chitarra sulla scia di quello di Am I Evil? E poi Lawbreaker è una celebrazione assoluta degli anni Ottanta, in cui le chitarre si fanno meno affilate in favore di un respiro più aperto. Ma è pur sempre l’oscurità a predominare: Modern World Suicide, chitarristicamente parlando, mi ha ricordato il Tommi Vetterli dei Coroner mediani e dei suoi trascorsi nei Kreator, e, con una diversa produzione, ben si sarebbe adattata a un contesto industrial tipico dei Novanta di mezzo. L’unica nota stonata, probabilmente, la rintraccio nell’assolo di basso. Le linee di basso formano un’amalgama impeccabile in ogni canzone, sono palpabili, melodiose. Nell’assolo si richiama la distorsione di For Whom the Bell Tolls, senza, con ciò, mantenere alta l’attenzione come un brano simile dovrebbe al fine di giustificare la propria presenza in una scaletta. Piccoli dettagli: l’album è un ottimo debutto nonché una delle cose più interessanti che l’Italia metallica ha saputo offrirmi in questo 2021; avanti così, sulla propria strada, nonché in scia dell’operato dei maestri di una scena che ad oggi amiamo, e che mette in difficoltà la maggior parte di coloro che, audacemente e un po’ goffamente, si cimentano disperatamente nel rievocarla.

Nota a margine: sono favorevole alle autoproduzioni nei casi in cui il gruppo è perfettamente cosciente di ciò che sviluppa e porta avanti, tanto quanto sono nostalgico delle figure autorevoli che sorvolavano come avvoltoi sull’operato delle band, talvolta influenzandolo, talvolta impedendo che l’inesperienza e la foga le portasse a compiere scelte scellerate. In questo caso l’autoproduzione ha portato alla luce un buon risultato. Purtroppo non si può dire lo stesso sulla copertina, che dubito sia stata commissionata a qualche professionista del settore, tipo il nostro Girardi: il mio consiglio a un gruppo alle prime armi e che promette bene è di considerare di scegliere, in futuro, le giuste figure alle quali riferirsi per ottenere un suono in crescita, o evoluzione, una copertina nominabile tale, una fotografia promozionale all’altezza. Sono piccoli dettagli che fanno la differenza e, se non sono indispensabili al primo disco, presto lo saranno. E chi resta a lungo impantanato nel limbo dell’autoproduzione certamente finisce per perdersi qualcosa. (Marco Belardi)

2 commenti

  • … in effetti il font del logo mi sembra un po’ troppo Megadeth… però adesso mi metto ad ascoltarli volentieri!

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  • Grazie, Belardi, per il consiglio per gli ascolti. E condivido le tue valutazioni sulla necessità di apporti esterni al gruppo in termini di estetica, visuale e sonora, per evitare di cadere nel solipsismo stilistico (e sappiamo che in ambito thrash è facile liquidare come “poser” tutto ciò che si allontana minimamente dal canone o anche solo non piace al singolo individuo).

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