L’anno del thrash/death vecchia scuola: INHUMAN CONDITION – Rat God

Avevo maturato l’idea, per non osare il termine “convinzione”, che entro il 2021 l’album dei Solstice non sarebbe stato bissato. Non che lo consideri un’inarrivabile celebrazione del thrash/death che fu, o che ritenga che ben presto ne decanteremo titolo, pezzi e testi a menadito: molto più semplicemente, e molto meno romanticamente, è oggi raro che qualcuno se ne esca con il mood del 1990/1991 e te lo schiaffi lì, immutato e non goffamente trapiantato, come se niente fosse. Un’impresa tale riesce a stento pure a chi quell’epoca l’ha vissuta e alimentata, in alcuni casi per palese incapacità, in altri casi perché si va ricercando altro.
Poi è arrivata la segnalazione – a proposito, grazie Damiano – dell’uscita degli Inhuman Condition, e molti suoi aspetti hanno contribuito a ricollegarne l’album a quello dei Solstice. Innanzitutto il fattore refurtiva.
Gli Inhuman Condition, innanzitutto, appartengono a Terry Butler, lo storico bassista dei Massacre e dei Death di Leprosy e Spiritual Healing. Butler mette qui a segno un vistoso e strafottente poker: riprende il nome dall’EP dei Massacre del 1992, riprende il logo, copiato pari pari da quello dei Massacre, e ne assume due turnisti da una delle più recenti reincarnazioni, gli abili Jeramie Kling e Taylor Nordberg. Avesse potuto prendersi un paio di mountain bike e dei sacchi pieni di terriccio lo avrebbe certamente fatto, ma la cantina era chiusa a doppia mandata. Per quarta e ultima cosa riprende la copertina, ma la riprende dai Solstice e, data la contemporaneità delle due uscite, lo fa certamente a sua insaputa: ma di quella ci occuperemo fra un po’.
Non potrà mancare, in un album dalle simili premesse, un certo livello di citazionismo: Planetary Paroxism si riallaccia direttamente ai tempi di Spiritual Healing, mentre Gravebound enfatizza quell’incedere lento e fiero che già introdusse Pull the Plug e Altering the Future. La title track, a dirla tutta, attacca più o meno come From Beyond dei Massacre, e, per concludere, The Neck Step cita o vagamente scopiazza Procreation of the Wicked dei Celtic Frost per poi accelerare in tutta tranquillità. Male, direte voi, specie se ricercavate qualcosa di sostanzialmente diverso da From Beyond, perché buona parte del riffing di Rat God gira tutto lì attorno, spostando i suoni giusto uno o due anni più in là nella linea temporale che è stata tributata.
Agli Inhuman Condition non frega niente di inaugurare qualcosa, e ci mettono pochissimo a farlo capire. La voce assomiglia a una specie di Kam Lee ibridato alla larga con Dave Ingram, con qualche cadenza tipica del primissimo Benton. C’è un’accoppiata batteria/chitarra spaventosa, sia nel modo in cui si crea un’invidiabile intesa sia nella mera costruzione dei riff. Rat God è una sorta di manuale operativo del thrash/death dal titolo più bestemmiante che altisonante, è pressoché impeccabile e gli stronzi che oggi entrano in studio di registrazione e plastificano il metal estremo con tutti quei trigger, tutto quel livellare e quel togliere anima per semplificare e “migliorare”, dovrebbero essere sottoposti all’ascolto reiterato del suddetto album con metodi non dissimili dalla Cura Ludovico, osservando per ore e ore vecchie diapositive di gente della Florida in una sorta di documentario locale a mo’ di quel Murder in the Front Row che tenne elegantemente l’accento sull’albeggiare della Bay Area. Il thrash/death potrete suonarlo come vi pare, tanto è così che uscirà fuori nella sua forma migliore. Perfino gli Hexx di Morbid Reality, abbracciando in toto il manuale operativo di quegli anni, ne cavarono fuori un qualcosa che è oggi irripetibile. E mentirei se affermassi di trovare in Morbid Reality qualcosa d’eccellente. Questo per dirvi che sì, sono esaltato come quando il Milan nell’ottobre 1992 distrusse la Fiorentina di Effenberg per sette reti a tre, ma tanto quella Fiorentina fece finuccia a fine campionato quanto Solstice e Inhuman Condition giocano ad armi impari in quest’altro campo da gioco. In Rat God non individuerete una incontenibile cattiveria o un’ispirazione tale da consegnarci la nuova Cryptic Realms o Open Casket che dir si voglia, piuttosto vi individuerete la forma perfetta di un genere musicale dimenticato, alle cui radici un’intera generazione di metallari è rimasta ancorata senza possibilità né volontà di liberarsi. Il metal invecchia oppure cresce, e quei metallari, di cui inevitabilmente più che fieramente faccio parte, invecchieranno soltanto: la soddisfazione di rimettere persone come il sottoscritto al cospetto di un album risuonante l’annata 1990 o 1991, se permettete, trascende perfino i contenuti. Che sono buonissimi.
Poche le sue sostanziali eccezioni. Tyrantula (titolo da film in programmazione serale sul canale 26 Cielo del digitale terrestre) è l’unica ad esordire con un riff che puzza di recente, oltre a offrirci la comparsa di Rick Rozz in un assolo. Una strana collaborazione, questa, visti i toni con cui Butler lo apostrofò colpevole della disfatta dei Massacre non molti anni addietro. Più in là, sempre per restare in tema di eccezioni, Killing Pace mi appare costruita a tavolino, quasi a voler concedere a un pubblico generico la parvenza di un singoletto, e infatti risulta scelta come tale. A proposito, il testo di quest’ultima è opera di quel Paul Mazurkiewicz. Il resto è una rasoiata, che si apre con un pezzo nella norma, tirato e lineare e con qualche eco dei Pestilence nel riffing, e prosegue in un lento crescendo, canzone dopo canzone, sino alla conclusiva Fait Accompli. Nove in tutto, trentatré minuti scarsi di durata: così si fa, un album simile non ne avrebbe retti quarantacinque o peggio ancora cinquanta. E se così si fa, ti si perdonerà qualsiasi velleità inclusa quella copertina che scimmiotta Ed Repka pur essendo dipinta da un altro. A proposito, poiché alle copertine tengo tantissimo: giusto i Solstice qualche settimana fa se ne sono usciti con Casting the Die e Bargone mi segnalava quanto l’immagine non ritraesse altro che il finale della seconda stagione di Twin Peaks. Direi che ci risiamo, dentifricio e lavandino esclusi.
La domanda finale è: se i Massacre costituirono di fatto una macabra continuazione dei Death senza il loro leader, giacché ne assunsero il batterista mentre il precedenza erano stati attivi con Joe Cangelosi dei Whiplash, e se gli Inhuman Condition sono a loro volta la continuazione di un progetto che ha toppato con una certa reiterazione nonostante quel formidabile debutto, allora in che relazione si trovano Death e Inhuman Condition, e cosa verrà in seguito? Terry Butler, i miei più sentiti complimenti, ma datti un contegno adesso. (Marco Belardi)
Quanto mi mancano ‘sti riffoni spaccaschiena!
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