L’album degli Obscura che non è stato fatto dagli Obscura ma che è migliore degli album degli Obscura

Su Metal Skunk abbiamo un rapporto d’amore e odio con gli Obscura. Soprattutto io e Ciccio, che col gruppo tedesco soffriamo di questo rapporto travagliato fatto di continue sbandate e ritorni di fiamma che, ogni volta che finiscono inevitabilmente male, riescono sempre ad essere più deludenti della volta precedente. Ciononostante continuiamo a riprovarci, intestarditi e incaponiti, alimentando il ricordo dolceamaro di quello che era stato e che più non sarà. E poi scriviamo recensioni deluse e incazzate, perché ormai il conflitto è rimasto l’unico modo per tenere viva la relazione.

C’era un tempo in cui mi ascoltavo tutti gli album solisti degli artisti dei gruppi che mi piacevano. E più o meno era proprio il periodo del mio primo innamoramento con gli Obscura, quelli di Cosmogenesis. Tutto iniziò un paio di anni dopo, quando uscì il primo album solista di Christian Muenzner, all’epoca chitarrista del gruppo, sul quale suonava l’onnipresente Steve DiGiorgio, uno dei miei bassisti preferiti, ça va sans dire, e altro musicista di cui ero ansioso di ascoltare ogni rutto e scoreggia. Timewarp, così si intitola, è una noia mortale: un’accozzaglia neoclassica senza capo né coda che non riesce a trovare la sua raison d’être neanche nella miriade di ospiti prestigiosi di cui si vanta (incolore persino la prova di DiGiorgio). Per fortuna la mia esperienza con gli album solisti non fu sempre così pessima: Evan Brewer, che non è una nuova marca di birra artigianale radical chic in lattina ma l’ex bassista dei The Faceless, pubblicò un paio di album tutto sommato godibili; idem Krimh, al momento batterista dei Septicflesh passato anche dai Decapitated; così come Hannes Grossmann, che, per chiudere il cerchio, accompagnò Muenzner sia nel secondo album dei Necrophagist che nei primi passi negli Obscura.

Il campione non è rappresentativo, ma comincio ad avere la netta sensazione che i batteristi siano più bravi degli altri musicisti a fare album solisti. Questi, di base, hanno lo scopo sì di dare sfogo alla creatività di un artista; ma, in ultima istanza, il fine ultimo è di carattere quantomeno autoreferenziale, se non addirittura onanistico. Riflettendoci, quindi, sono arrivato alla conclusione che, forse, quando un chitarrista (in particolare se della risma di Muenzner) si deve mettere in mostra, fracassa giocoforza i timpani degli ascoltatori con tutte le scale e gli inutili orpelli rococò che deve necessariamente inserire per flettere i muscoli uditivamente parlando – i ragazzini d’oggi direbbero flexare. Un batterista, invece, per mettersi alla prova e dare a vedere quanto è bravo, ha bisogno di una base ritmica degna di questo nome. Fatto sta che, se gli altri album di Grossmann non lasciavano granché una volta terminati, a To Where the Light Retreats il batterista tedesco è riuscito a dare una forma compiuta e quadrata, termine che se riferito ad un album death metal e non a una persona assume per forza di cose un’accezione assolutamente positiva.

I riferimenti stilistici sono sempre quelli del death metal tecnico dell’ultimo decennio e alcuni ospiti vengono pure direttamente dalla casa madre Obscura, come il bassista Linus Klausenitzer, colui che a suo tempo sostituì Thesseling, e V. Santura, tra le altre cose dietro ai microfoni sia nella band tedesca che nei Triptykon (gruppo con cui peraltro Grossmann ha recentemente suonato dal vivo). Se la prima traccia dell’album, The Great Designer, inizia con un arpeggio che richiama direttamente alcuni stilemi propri degli Obscura, l’attacco immediatamente successivo sa invece di death metal vecchia scuola (a me ha ricordato i Pestilence), sia per la tipologia di riff che per sonorità decisamente più sporche rispetto alle ondate più recenti di death metal (leggi Spawn of Possession, dove non è un caso che abbia suonato proprio Muenzner). Certo, la sporcizia è sicuramente un po’ posticcia, e dà l’impressione di essere stata messa lì artatamente. Ciononostante, la voce tagliente di V. Santura riesce a dare personalità al disco e la parte finale, leggermente tendente al progressive e con qualche passaggio pulito in più – questa volta per fortuna senza vocoder – dà quella varietà necessaria a non annoiare. Confrontato con i totem del genere To Where the Light Retreats risulterà piacevole, nel migliore dei casi. Se confrontato invece con i riferimenti più recenti, tra cui gli ultimi album degli stessi Obscura, siamo davanti ad un lavoro di tutto rispetto. (Edoardo Giardina)

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