CAVALERA CONSPIRACY – Psychosis

Questo è il quarto disco dei Cavalera Conspiracy e anche il primo che ascolto con una certa attenzione, ma lo faccio solo perché sento che non sia giusto che questi continuino a fare dischi e su Metal Skunk nessuno ne parli male. L’ultimo lavoro di Max Cavalera che ho seriamente ascoltato fu Enslaved dei Soulfly, che trattai nel modo che meritava con una tremenda stroncatura di cui ancora oggi vado particolarmente fiero. Ricordavo vagamente che i Cavalera Conspiracy fossero un po’ diversi dai Soulfly, quindi mi sono approcciato all’ascolto di Psychosis non dico con fiducia (quella è andata persa sin dai tempi di Roots), ma quantomeno sperando che non facesse così tanto schifo. Ed in effetti è così, bisogna riconoscerlo: i Cavalera Conspiracy rispetto ai Soulfly sembrano i Led Zeppelin del periodo ‘69-’71: molto più strutturati, più complessi, variegati, con cambi di tempo che permettono alle canzoni di non girare sempre intorno a quegli odiosissimi riff TRUTRUTUTTRUTRUTUTTRU che il puzzolente vocalist ripete da fine anni novanta col suo gruppo principale. Paradossalmente non darei neanche il merito alla variabile principale, cioè il fratello Igor, da sempre batterista talentuoso e personale ma che qui rimane sullo sfondo senza prendere mai troppo l’iniziativa. Il che è un male in realtà, perché uno come lui avrebbe di sicuro impreziosito il disco, ma per il momento mi sentirei di accontentarmi che Psychosis non sia una latrina a cielo aperto come i meravigliosi lavori dei Soulfly. 

Il genere non è poi tanto diverso, concettualmente: è tutta roba vagamente estrema/vagamente etnica vomitata fuori dai postumi dei Nailbomb e di Roots, o al limite di Chaos AD; e il fatto che non se ne stia parlando malissimo dipende quasi esclusivamente dal fatto che la base di partenza del giudizio non possono non essere i Soulfly, uno dei principali elementi di prova della non-esistenza di Dio o, alternativamente, del fatto che Egli esista, ci odia e si sta divertendo a giocare sadicamente con noi come il gatto col topo prima di sterminarci tutti. Perché poi intendiamoci: se questo fosse un album di un gruppo qualsiasi il tono sarebbe molto diverso, dato che uscirsene con questa roba nel 2017 è utile quanto un repellente per zanzare nella Fossa delle Marianne. Però il fatto che i nove pezzi presenti siano innanzitutto uno diverso dall’altro, e anche il fatto che non ti venga voglia di porre fine alla tua vita in modo orribilmente cruento durante l’ascolto, è un traguardo sovrumano, parlando di Max Cavalera. Qui ci accontentiamo di notare come alcuni riff sembrino degni dei Nailbomb (ad esempio in Spectral War) o come la titletrack strumentale sia venata di sfumature sinceramente oscure ed apocalittiche senza essere il solito accrocchio di bestialità tribali degne di un centro sociale in cui si spacciano escrementi di cammello pressati fatti passare per hashish. Molto merito in tutto questo è sicuramente del produttore, Arthur Rizk, già dietro la consolle per una quantità impressionante di gruppi tra cui Power Trip, Code Orange e gli Inquisition, nientedimeno. Sono anche io molto deluso dal non poter parlare nuovamente malissimo di Max Cavalera, ma questa volta proprio non sarebbe onesto; peraltro una canzone si chiama Crom ed è dedicata al mondo di Conan, la qual cosa mi mette ulteriormente in buona disposizione d’animo. Ho però fiducia che nel prossimo futuro il punkabbestia in oggetto farà uscire una qualche altra boiata delle sue, quindi d’ora in poi monitorerò attentamente il suo operato per far sì che voi ventiquattro affezionatissimi possiate godere di un mio sproloquio di insulti e bestemmie nei suoi riguardi. (barg)

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