Avere vent’anni: gennaio 2005

ALCEST – Le secret

Barg: Escludendo il demo Tristesse Hivernale del 2001, questo è il primo vagito del gruppo che un paio d’anni più tardi debutterà ufficialmente spalancando nuove strade all’intero movimento black metal. Due sole tracce lunghissime che insieme fanno ventisette minuti, circa un minuto meno della durata di Reign in Blood, il che pone Le Secret quasi alle soglie di un full. Personalmente scoprii gli Alcest col primo album vero e proprio, Souvenirs d’un Autre Monde, che mi aprì un mondo; ma, se prima di allora avessi ascoltato questo Ep, quelle sensazioni sarebbero state anticipate. C’è già tutto qua dentro, con Neige (all’epoca unico componente della band) che sembrava avere le idee chiarissime su come avrebbe dovuto suonare il suo progetto. Gli Alcest sono stati un gruppo enorme, e Le Secret rientra di diritto nell’età d’oro del gruppo francese; per questo va ascoltato e trattato col rispetto e l’ammirazione che si deve a una band così significativa e importante. L’intero Ep verrà poi riproposto nel 2011, con le due tracce sia in versione originale che risuonate e riarrangiate.

ROTTEN SOUND – Exit

Luca Venturini: Exit dei Rotten Sound è largamente conosciuto come il loro lavoro più riuscito, e uno dei migliori album grindcore di sempre. Si dice sia proprio qui che la band finlandese arrivi alla piena consapevolezza creativa, aiutati anche dalla produzione di Mieszko Talarczyk dei Nasum, morto in Tailandia nel dicembre 2004 a causa dello tsunami. Sinceramente, a me questo album però non ha mai acchiappato più di tanto. Preferisco il loro primo disco, Under Pressure, che trovo favoloso, pieno di riffoni, con una attitudine cazzona, vario ritmicamente e con una buona gestione delle dinamiche; elementi che già dal secondo disco in poi sono venuti sempre un po’ meno. Va da sé che, visto come Exit venne accolto e ancor di più per come è ricordato, ogni tanto un ascolto provo a darglielo. Ma niente, dopo un po’ inizio a pensare ai fatti miei, e alla fine rimetto su il debutto.

MIDNATTSOL – Where Twilight Dwells

Michele Romani: I Midnattsol balzarono agli onori delle cronache vent’anni fa per essere il gruppo capeggiato da Carmen Elise Espenæs, sorellina della ben più nota Liv Kristine Espenæs (la somiglianza è impressionante), parentela che ovviamente ha influito non poco nel far conoscere la band nel circuito. Purtroppo però i Midnattsol con i grandissimi Theatre of Tragedy hanno zero in comune, sia per il genere proposto che è un gothic folk metal soporifero che non c’azzecca nulla col sestetto di Stavanger, sia per la voce di Carmen che cerca goffamente di imitare quella impareggiabile di Liv Kristine. Sul disco ho veramente poco da dire, una delle classiche uscite Napalm dei primi anni 2000 che ai tempi sembravano un po’ tutte uguali, sempre ‘sto gothic leggerino e iperprodotto all’interno del quale, nel caso dei Midnattsol, fanno capolino frequenti rimandi folk metal, a volte pure fin troppo forzati e fuori contesto. Cosa che non avverrà invece per il successivo Nordlys che è decisamente meglio, cantato compreso.

GRAVE DIGGER – The Last Supper

Barg: Ad essere sinceri la cosa che ricordavo maggiormente di questo The Last Supper erano le sproporzionatamente grandi mani del Cristo in copertina, che manco se avessero usato Gianni Morandi come modello. Per il resto questo dodicesimo album dei Grave Digger mi aveva lasciato pochissimo, anche perché all’epoca il declino qualitativo era chiarissimo e lasciava pochi dubbi e poche speranze. Riascoltato adesso non sembra neanche così male, ma è sempre il solito discorso: il declino della band è andato talmente avanti che ora un dischettino senza pretese come questo rischia persino di fare bella figura; una Hell to Pay, ad esempio, per quanto stereotipata e fatta col pilota automatico, ha un tiro che è difficile ritrovare nelle ultime prove in studio dei Grave Digger. Questo non vuol dire che The Last Supper vada recuperato a tutti i costi, ma nel caso capitasse casualmente nello stereo non c’è bisogno di affannarsi a toglierlo il prima possibile.

MACABRE OMEN – The Ancient Returns

Griffar: I Macabre Omen sono uno storico gruppo greco di epic black metal, attivo dal lontano 1994 per quanto poco prolifico rispetto ad altre realtà dell’epoca. The Ancient Returns è infatti il loro full di debutto, un album che ha avuto una gestazione lunghissima quantificabile in dieci anni circa, durante i quali il gruppo si è fatto vivo solo in occasione di alcuni split 7” o CD (il rarissimo None Shall Escape the Wrath con Judas Iscariot, Krieg ed Eternal Majesty). La loro proposta consiste in un black metal molto incentrato sulle trame melodiche delle chitarre, con strutture ritmiche articolate e cangianti che svariano da poderosi mid-tempo fino al classico full-speed blast che non poco ricorda cose fatte dai conterranei Nocternity fino agli Immortal più tosti. I pezzi sono trascinanti al punto che convincerebbero il più indolente degli imboscati a lanciarsi impavidamente nell’infuriare della battaglia più cruenta, ma l’apice lo si raggiunge in An Ode to Rhode, costruita su un’azzeccata alternanza di trame acustiche di chitarra con parti più poderose che seguono dei riff melodici memorabili. Il disco fu registrato facendo un ottimo lavoro nei Big Wave Studio di Livorno, segnalo inoltre la presenza di Claudio Alcara (Handful of Hate, Frostmoon Eclipse) alla seconda chitarra e Gionata Potenti alla batteria. Successivamente hanno pubblicato altri tre split e un secondo LP nel 2015 anch’esso molto valido, ora è parecchio tempo che non si fanno vivi.

MASTERPLAN – Aeronautics

Barg: Tutto quello che è stato scritto per il debutto vale anche per questo secondo album dei Masterplan, con due eccezioni: la mancanza dell’effetto sorpresa e l’assenza di un capolavoro come Spirit Never Die, che rimarrà ineguagliato. Per quanto riguarda il primo punto, la relativa freddezza con cui i Masterplan furono accolti si trasferirà anche a questo Aeronautics, che è un bell’album ma che forse si pone troppo a metà, come avevamo già scritto: troppo maturo per le vedove degli Helloween, troppo power per chi si aspettava un disco più prog. Una specie di peccato originale, o quantomeno percepito come tale, per cui il gruppo di Roland Grapow continuerà la sua storia sempre in modo dignitoso senza mai riuscire a raccogliere quanto faticosamente seminato. Sul secondo punto non c’è molto da dire, salvo che anche qui il pezzo migliore è in apertura (Crimson Rider), pur non paragonabile al precedente capolavoro. Per il resto Aeronautics è un’altra prova di power metal raffinato, composto e arrangiato come si deve, e suonato (e cantato) con la perizia che ci si aspetta dai personaggi coinvolti. Ma chi lo ha ascoltato lo sa già benissimo.

TRISTANIA – Ashes

Michele Romani: Considero da sempre Ashes tra i peggiori dischi dei Tristania, a loro volta uno dei migliori gruppi goth-doom nati nel nuovo millennio, che dopo i primi due immortali capolavori ha preso una lenta china discendente, anche se devo dire di aver molto rivalutato col tempo quel World of Glass che ai tempi dell’uscita non avevo digerito per niente. Come ripetuto più volte, l’abbandono del principale compositore Morten Veland dopo Beyond the Veil è stato letale per la band norvegese, che comunque si era ancora difesa degnamente col terzo per poi svaccare completamente con questo incomprensibile Ashes. Un disco che nelle intenzioni voleva esplorare nuovi confini e togliersi definitivamente di dosso le ammalianti e oscure atmosfere dei primi lavori, con tanto di chitarre stoppate, elementi industrialoidi qua e là e l’angelica voce di Vibeke Stene in modalità quasi esclusivamente pop invece che soprano, sempre bella per carità ma che perde tantissimo nell’adattarsi alle sonorità del disco. Premetto che non sono uno che storce il naso a priori quando un gruppo vuole cercare di evolversi e cercare nuove strade, ma lo strappo in questo frangente è davvero troppo netto e, cosa ben più grave, caratterizzato da una serie di pezzi noiosissimi di cui salvo a malapena Equilibrium. L’inizio della fine per i Tristania, che cambieranno di nuovo totalmente pelle con la nuova cantante durata appena un paio di lavori per poi sciogliersi definitivamente nel disinteresse generale.

SILBERBACH – Inferno

Griffar: Anche la storia dei tedeschi Silberbach è quantomeno curiosa: nati nel 1996, fecero uscire il primo demo due anni dopo e poi, dopo un silenzio durato 7 anni, esordirono con Inferno. Il loro stile di black ortodosso, smunto ed essenziale col tempo si è evoluto, perché nello stesso lasso di tempo intercorso tra la fondazione del gruppo e il primo LP – cioè il periodo successivo 2005-2014 – di loro si contano 11 titoli tra split e full, tutti di livello concretamente superiore a Inferno. Cosa che li ha fatti diventare esponenti di spicco della scena black tedesca anche se la cosa non viene riconosciuta dai più, principalmente perché il blackster medio non ascolta altro che i grandi nomi, e il resto gli sembra derivativo e sterile… eh beh, gli ultimi dischi di Immortal, Marduk, Dark Funeral eccetera gli danno ragionissima, no? Tutti capolavori imperdibili, proprio. Invero, il debutto dei Silberbach è distante da quello che sarebbero diventati dopo: grezzissimo, minimale, registrato così-così e con una scelta (deliberata) di suoni più riconducibile a una demo di esordienti assoluti, Inferno contiene buone idee e discreti riff pur essendo in fase embrionale rispetto a quanto da loro creato in tempi anche immediatamente successivi. Ancora attivi oggi, il sesto album Miriquidi è datato 2021.

FIREWIND – Forged by Fire

Barg: Con Forged by Fire i Firewind cambiano per la prima volta cantante, iniziando una girandola che li accompagnerà per tutta la carriera tanto che adesso, anno 2025, si ritrovano al quinto cantante in poco più di vent’anni effettivi. Qui al microfono c’è un cingalese, Chity Somapala, che durerà lo spazio di questo disco e relativo tour per essere sostituito già col successivo album. Questo continuo cambiare voce non ha fatto troppo bene ai Firewind, soprattutto per il fatto che, complice anche una certa propensione a mutare stile tra un disco e l’altro, il gruppo ha finito per non essere riconoscibile e non avere una sua impronta personale; certo, c’è sempre la chitarra di Gus G, ma c’è anche in altri duemila gruppi e quindi si finisce a fare confusione. Eppure Somapala era un buon cantante e Forged by Fire è un dischetto carino, specie per qualche bordata ben assestata come Tyranny o Hate World Hero. Chi ama il power metal fatto come si deve saprà apprezzarlo, specie durante un qualche viaggio in macchina.

  AVULSED – Gorespattered Suicide

Luca Venturini: Gli Avulsed sono uno storico gruppo brutal death spagnolo attivo dal 1991, il cui cantante Dave Rotten ha tatuato sugli avambracci la scritta “DEATH METAL”. A scanso di equivoci. Gorespattered Suicide è il quarto album della band, ed è veramente ma veramente fico. Rispetto ai precedenti, che si battono tutti bene sulla scena death non solo europea ma anche mondiale, qui troviamo quelle caratteristiche melodiche che già erano in parte presenti anche nei precedenti, ma che non erano mai emerse come fino ad ora. Il risultato è superbo. I pezzi sono accattivanti, e pur mantenendo un suono totalmente brutale sono molto orecchiabili. Se fino a qui non vi ho convinto all’ascolto allora adesso butto il carico da novanta: c’è la miglior canzone scritta dalla band, Burnt but not Carbonized, che vi si stamperà in testa a vita, e una cover di Ace of Spades, che fa scassare. In ogni caso, state pronti perchè il 4 marzo uscirà il nuovo album.

REGNUM – st

Griffar: Il capolavoro di Nachzehrer e dei suoi Regnum è l’omonimo mini uscito nel gennaio 2005, e il termine capolavoro in questo caso è appropriato e non eccessivo. Nella scena depressive black tedesca di per sé assai frequentata, un disco come questo semplicemente non esisteva; di solito associamo questo stile a brani lunghi, lunghissimi, ripetitivi che generano malumore per via della sensazione di infernale monotonia. In Regnum non v’è nulla di tutto ciò: nessun brano raggiunge i 5 minuti di durata, tutto il lavoro non arriva ai 29 e lo strazio deriva proprio dalla pura angoscia delle melodie drammatiche disegnate dalla chitarra iperdistorta e cupissima dell’artista tedesco. I 7 brani (più outro) sono un viaggio nella sofferenza dell’anima senza eguali, e la sorprendente snellezza delle composizioni risulta essere una marcia in più, mentre Nachzehrer declama in uno screaming gracchiato e agonico liriche di totale disperazione. Regnum è il miglior disco depressive black tedesco di sempre: se vi piace gente come Nyktalgia, Sterbend, Anti e simili sappiate che i Regnum sono superiori, e se la giocano da pari a pari con i Silencer. In tutto esistono una dozzina di titoli a loro nome, molti dei quali usciti in poche o pochissime copie in cassetta o vinile. Hanno all’attivo un solo full (Dem Entwirklichten, 2012) e non se ne hanno tracce dal 2015.

KYLÄHULLUT – Turpa Täynnä

Barg: Per diverso tempo ho considerato questo disco come il migliore mai fatto da Alexi Laiho. Non tanto per demeriti dei Children of Bodom, ma perché questo debutto del progetto Kylähullut spacca davvero troppo. Eppure non ne ho mai sentito parlare troppo in giro, forse perché non ha niente a che vedere con la nave madre bodomiana e neanche col metal in generale, essendo più che altro un punk melodico e tutt’al più metallizzato, con doppio pedale e cori da osteria saatana vittu perkele; una versione più cazzona e alcolica degli Exploited periodo Beat the Bastards, diciamo. Due i musicisti coinvolti oltre a Laiho: alla voce Vesa Jokinen, membro storico del gruppo punk finlandese Klamydia; alla batteria e al basso Tonmi Lillman, deceduto nel 2012, già in Ajattara, Sinergy e To/Die/For, tra gli altri. Turpa Täynnä dura una mezz’oretta ed è composto di canzoncine brevi, semplici e orecchiabili, come da copione, con in più i fischioni di chitarra di Alexi Laiho, che fanno sempre bene. Due ultime cose prima di concludere: il nome del gruppo vuol dire “scemi del villaggio” e l’eponima in chiusura è un pezzone clamoroso.

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