CADAVERIA @Alchemica Music Club, Bologna – 14.07.2023

Non ero mai stato all’Alchemica Music Club di Bologna. In città ricordo d’esser passato più di una volta per l’Estragon e il Roveri; mai per l’Alchemica. Sul cui palco si sono avvicendati, ho letto all’ingresso, Batushka, Gorgoroth, Soen, Pestilence e molti altri ancora si sono avvicendati sul palco.

Non male per un locale così piccolo, il cui backstage in rapporto assomiglia a un magazzino Ikea. A dire il vero anche il palco è di ragguardevoli dimensioni, nonostante la capienza non superi più di un centinaio d’anime. Non so se a fine serata si sia arrivati a una tale cifra, complice forse l’Imola Summer Fest che offriva ingresso gratuito, frescura serale e un piatto forte come i Lacuna Coil. Non fraintendetemi: pur di non sentirli mi chiuderei nel bagagliaio di un’automobile con un walkman e i Terrorizer in cuffia, ma debbo riconoscere la fama e la generale riuscita del progetto. 

Un’ora e mezzo di autostrada – Autogrill incluso – mi ha dunque portato fuori regione per finire col leggere la stessa dicitura che, negli ultimi mesi, avevo più volte rintracciato nei dintorni dell’Arno: Firenze Metal. È stata compito loro l’organizzazione della serata, mentre, per il Viper Theatre, un po’ la base logistica di tutto, non se ne riparlerà prima d’autunno inoltrato. Il festival prevedeva una sequela di formazioni locali in apertura ai Cadaveria, il cui show aveva un’importanza su cui tornerò più tardi.

DSC03184-Edit copia

La pedana del frontman degli Escaped un attimo prima dell’esibizione. Ph: Marco Belardi

Birra alla spina – che nei locali metal è la stessa più o meno dal 1996 – e mi sono piazzato a fronte palco in attesa dei primi della lista, gli Escaped.

Il dubbio che mi attanagliava era il seguente: se l’aria condizionata al momento consentiva una totale vivibilità all’interno dell’Alchemica, che cosa sarebbe accaduto a locale presumibilmente pieno? Davo per scontato che si sarebbe riempito circa a metà evento, e i miei pensieri erano tutti rivolti alla storia del gatto col topo o a quei tizi dentro al sottomarino Titan, al che ho rischiato di trasalire. Problematiche di natura respiratoria a dire il vero ci sarebbero sì state, ma in un altro senso.

Gli Escaped si sono presentati con un leader di stazza enorme, abile al punto di regger la scena da solo. Non bastasse, si è servito d’una di quelle piattaforme metalliche utili solo a Dani Filth, ostentando la sua tuta blu da meccanico, calzini bianchi di spugna e altri capi di vestiario estratti a sorte. Sebbene una cassa spia abbia dato problemi tutto il tempo, l’energumeno al microfono ha tentato in tutti i modi il contatto col pubblico: alcuni brani sono passati in sordina, altri, come Time to Die o Grave Party all’epilogo, han suscitato una qualche reazione. Sfortunatamente, complici non i Lacuna Coil a Imola, ma l’ora di cena, il locale è rimasto semivuoto e il pubblico ha iniziato ad adunarsi numeroso all’esterno dello stesso.

A un certo punto è successa una cosa che mi ha fatto imprecare, ed a cui non ho riservato il giusto peso.

DSC03202-Edit copia

DSC03203-Edit copia

Escaped. Ph: Marco Belardi

Fuori dall’Alchemica si stava a tutti gli effetti benissimo, con numerosi tavolini occupati e la birra alla spina del 1996 che vistosamente andava per la maggiore. Dentro la palla è passata agli A Place for Murder, death metal da Bologna.

Nel loro caso la scena era sorretta da un binomio: bassista e chitarrista solista. Il suono del primo usciva benissimo, mettendone in risalto l’ottima tecnica esecutiva. Il secondo si è prodigato in numerosi assoli di buona fattura, i quali però si sono rivelati ardui da decifrare per buona parte della sala. Lo show è stato di discreta fattura proprio come il precedente; il cantante Marcello Mele non ha concesso alcuna tregua al collo e non ha mollato sino all’ultimo minuto. A un certo punto ho tirato una bestemmia, la seconda, e sono ora costretto a spiegarvi il perché dell’immonda reiterazione.

Allorché mi ritrovo a fotografare, sono spesso costretto a tenere una posizione dal basso verso l’alto per risaltare i soggetti e per farli un minimo svettare. Questo è un problema per i legamenti delle mie ginocchia. E anche per il naso, ieri. Alla fine del concerto degli Escaped qualcuno, in prima fila, ha liberato una nauseabonda flatulenza che non ha tardato a diffondersi: essendo presenti in pochi, ho ristretto il campo a quattro o cinque persone e lasciato democristianamente perdere: eravamo o non eravamo in una disputa fra regioni rosse? Alla metà del set degli A Place for Murder il problema si è ripresentato; nell’istante in cui hanno annunciato di dover tagliare la scaletta, si è allungata per una terza volta l’ombra del petomane sull’Alchemica: io, inginocchiato, ero letteralmente all’altezza del culo del perseverante bombarolo.

DSC03234-Edit copia

A Place for Murder. Ph: Marco Belardi

Considerato che dai Browbeat in poi non ho più percepito niente di simile a livello olfattivo, debbo dedurre che lo scorreggiatore se ne sia corso a casa a morire – in maniera orribile – in preda alla nefasta digestione. Amici bolognesi, crescentine e passatelli sono due cose meravigliose, ho avuto modo di sperimentarlo: ma taluni fra voi tanto mangiano bene quanto cacano male.

I Browbeat hanno fatto sul serio più di chiunque altro fino ad allora. Per prima cosa avevano una presenza scenica totale a livello collettivo. Non c’era una figura carismatica alternata ad altre più deboli. Il loro cantante si è rivelato un incredibile animale da palco; gli altri, fra bandane alla Mike Muir e attitudine hardcore, non gli hanno ceduto un centimetro se non a livello muscolare. Anche perché era un armadio.

A un certo punto, annunciata Who’s the Beast, hanno dedicato il pezzo a coloro che maltrattano gli animali. In me è automaticamente partito il ritornello di Exhibition Bout dei Sodom, al grido Cruelty to Animals – Crime that won’t get Punished – Creatures Treated as Rubbish.

DSC03262-Edit copia

DSC03274-Edit copia

Browbeat. Ph: Marco Belardi

Suonata Underpaid in pieno sciopero del traffico ferroviario e aereo, il che è più che coerente, mia moglie, esattamente a fine concerto, mi ha inviato un inspiegabile messaggio whatsapp in cui, in poche righe, mi chiedeva “se all’ultimo controllo delle orecchie di Whisky la veterinaria ha controllato se c’era otite”, confermando le preoccupazioni liriche dei Browbeat.

Sarò incline al filone, date le mie recenti recensioni di Drain, Incendiary, Judiciary e forse qualcun altro, ma i Browbeat hanno a mio avviso attuato il concerto della serata e battuto per K.O. tecnico chiunque altro. Sui Cadaveria è ovviamente necessario imbastire un discorso a parte.

I Gengis Khan erano il gruppo su cui avevo puntato maggiormente, e me lo confermava il loro notevole impatto estetico: vestiti con colbacco, pellicciotti, pesanti armature alla Nornagest, oltre a mettere per iscritto il concetto stesso di malore per shock termico e far riaffiorare il ricordo del Titan, hanno mandato in corto circuito i numerosi condizionatori dell’Alchemica per il solo fatto che a qualsiasi impostazione non avrebbero potuto salvare il power metal del bardatissimo e cruccheggiante trio bolognese. Il cui batterista, il meno vestito dei tre per ovvie ragioni, era dotato di una canotta raffigurante un cane stilizzato. A livello di pezzi ho l’impressione che quando rinunciano al bordone di doppia cassa e ci propinano qualcosa di più ruffiano, teatrale e ritmato, la loro musica funzioni meglio. Belle Reinventing the Fire e Possessed by the Wolf a fine scaletta, per un concerto penalizzato dalla posizione decentratissima del cantante su un palco molto strutturato in larghezza, e da un fattore scenico interamente basato sul vestiario. Da rivedere.

DSC03288-Edit copia

Gengis Khan. Ph: Marco Belardi

Sono legato all’estetica della scena estrema italiana in una maniera che non saprei descrivervi, che sia il death metal di Node, Sadist, Natron e Coram Lethe, o soprattutto, dato l’argomento in vigore, il black metal e il terreno ad esso adiacente, fertilissimo negli anni Novanta e sfruttato in più forme e contaminazioni doom o d’altra natura da Necromass, Opera IX, Evol e tant’altri. Cadaveria è un progetto conseguente che mi ha esaltato alla sola uscita del primo album The Shadows’ Madame, e di cui non ho condiviso le successive evoluzioni. In teoria fu proprio il cambiamento a separare Raffaella Rivarolo e Alberto Gaggiotti, alias Cadaveria e Flegias, dalla prima incarnazione dopo album d’innegabile importanza come Call of the Wood e Sacro Culto. In pratica il primo album dei Cadaveria – datato 2002, uscito su Scarlet all’apice dell’etichetta in oggetto – ancora conservava quell’estetica estrema anni Novanta fatta di suoni non digitalizzati, cupi e permeati della sensazione d’esser lì faccia a faccia con gli autori di codeste canzoni. Mai dimenticherò un pezzo come Circle of Eternal Becoming, il cui titolo l’ho letto sulla scaletta dietro alle famigerate casse spia un attimo prima che lo show dei piemontesi avesse inizio.

Al basso Gianluca Fontana, essendo il ruolo spettante di diritto al quattro corde dei Necrodeath dai tempi in cui lo ricopriva Davide Queirolo, alias John nei Necrodeath e Killer Bob nei Cadaveria – o più presumibilmente in Twin Peaks.

Non ho riconosciuto il loro chitarrista, ma quando Raffaella Rivarolo ha calcato il palco dell’Alchemica ha lavato via tutte le ironie di poc’anzi. Si trattava del primo concerto dei Cadaveria in almeno cinque anni, tenutosi nello stesso luogo in cui aveva preso vita un evento benefico per raccogliere fondi per curare il tumore di Raffaella, la cui notizia era stata data – dalla stessa – nella seconda metà del 2018.

DSC03324-Edit copia

Cadaveria. Ph: Marco Belardi

L’andare all’Alchemica di Bologna per assistere al suo show ha comportato inoltre il recupero dell’ultimo album, Emptiness, gradita sorpresa e in definitiva uno dei migliori dell’intera discografia del gruppo.

Nell’atteggiamento della cantante, ora con un liscio capello verde, ho percepito un misto di commozione e relativa soggezione. A livello vocale l’ho trovata in ottimo stato e la scaletta ha alternato momenti estratti da un po’ tutte le pubblicazioni, incluso quel In Your Blood che nel 2007 mi fece gridare allo scandalo con quei suoni moderni di qualche anno in ritardo rispetto all’esplosione di Evanescence, Lacuna Coil e compagnia bella. Ho percepito l’esibizione dei Cadaveria come il gradevole rivivere la medesima sensazione trasmessa da quella tipologia di metal occulto che, nei Novanta, avevamo così tanto amato e sentito nostra in Italia. Cadaveria ne è simbolo assoluto, i suoi innegabili e decorosi trascorsi negli Opera IX lo sono. E pertanto ho avuto l’estremo piacere d’assistere al suo concerto; sia questa la penultima o l’ultima volta che li rivedrò, quei tempi non torneranno mai indietro, eppure è stato possibile sentirne forte l’eco. (Marco Belardi)

2 commenti

Lascia un commento