Scapocciare come fosse il 1980 coi DANAVA – Nothing but Nothing

Avevo un vago ricordo dei Danava, da Portland, come di una band un po’ di stoner psichedelico, ma sostanzialmente progressive ed orientata verso il futuribile. Avevo ragione, riascoltando. Era il primo decennio dei 2000. Ci stava, erano un po’ tutti in fissa coi Mars Volta, coi Tool, quella roba lì. Soprattutto, mica solo in musica, poteva avere ancora un senso preoccuparsi di immaginare un futuro, uno sviluppo diverso, più libero delle cose. Che vi piacesse o meno poi quella vena post moderna e cervellotica in musica.
Guardate come sono le cose ora. Pare di essere nel drive-in di Lansdale un secondo prima che le cose vadano definitivamente a puttane. Il futuro ce lo siamo fumato, più o meno letteralmente, a seconda dei casi. La modernità sono città intere, anzi l’intera vita sociale in balia della finanza. Il presente è un glitch sintetico e un fesso con una patata in bocca che fa il gangster e canta della bamba che si fa e delle donne che usa. Il presente fa schifo, il futuro può solo peggiorare. Il passato però non provino a toccarcelo.
Stranissimo ritrovare i Danava nel 2023, a dodici anni dal precedente disco, con un album che su per giù non ha proprio nulla che possa essere datato oltre 1981. Non c’è manco quella voglia di mischiare elementi eterogenei, ma tutti vintage, in modo post moderno come a creare una sorta di ucronia sonora. Nothing but Nothing è il disco di oggi, 2023, ma di oggi non pare proprio. Pubblicato dalla Tee Pee, sulla quale si dovrebbe fare un discorsetto. Intanto, i Danava di oggi sono una band eccellente e perfettamente lucida. Non ha più senso oggi di parlare di revival. È una scelta di resistenza contro una modernità aberrante, anche nella musica che amiamo, infestato da tendenze orrende. I Danava invece sono una delle band retro rock e NWOTHM più divertenti ed esaltanti che possiate trovare in giro di questi tempi.
Guardate la copertina. Niente, ma proprio niente. La distruzione lascerà solo morte, o magari l’ha già fatto e siamo distratti. Come nei film catastrofisti, un fermo immagine strategico nel momento esatto dell’esplosione del fungo cristallizza un attimo irripetibile. Un attimo in cui alla radio passano ancora l’hard rock stradaiolo americano mentre i giovani inglesi si danno da fare col metallo. Nothing but Nothing è una fotografia scattata esattamente in quell’attimo li. La prima traccia omonima è un treno power speed americano lanciato a mille, epico e stradaiolo come un inno dei Riot. La successiva, il singolo Let the Good Times Kill, è una goduria hard che fa sudare come maiali e puzza di gas di scarico come i Montrose nel ’73. Season of Vengeance è uno strumentale avventuroso tra Transylvania e Genghis Khan. Tutto il discorso di citazioni, omaggi ed evocazioni si sublima in Enchanted Villain, sulla falsa riga di Heaven and Hell. Mica ci lamentiamo, abbiamo sempre bisogno di pezzoni così.
Non prendetelo per un disco-karaoke, Nothing but Nothing. Anche se prende a mani basse da elementi storicizzati, cristallizzati e catalogati cone distanti tra loro, suona omogeneo dall’inizio alla fine. Pare in tutto e per tutto uscito da un garage di un sobborgo americano, dentro quattro ragazzini capelloni col poster dei Molly Hatchet al muro e la fissa per la NWOBHM. Si concedono pure due divertenti variazioni nel finale. I synth alieni dei Chrome prima di quelli bubblegum-pop in un pezzo che in fondo sarebbe puro Judas Priest (Nuthin But Nothin) e una ballata intitolata Čas, che non so bene quale lingua slava sia ma tanto mi sa che vuol dire tempo o qualcosa di simile in più o meno tutte.
Già, il tempo, che spesso e volentieri sarebbe meglio che si arrestasse, se non potesse tornare addirittura indietro, prima della Pestilenza, della Siccità, della Guerra. Non so esattamente che lingua sia, ma Čas pare troppo una ballata dei croati (all’epoca jugoslavi) Majke di Goran Bare. Pare cantarci proprio lui. I Majke nei primi ’90, con due dischi stupendi (Razum I Bezumlje e Razdor) stavano per essere travolti dall’odio civile, ma suonavano indefessi come degli Stooges proto-stoner balcanici. Chissà se Gregory Meleney dei Danava li conosce, ma glieli consiglierei. Così cone a voi consiglio anche Nothing but Nothing. L’estate in qualche modo è alle porte e per godersela non c’è niente di meglio che portare le lancette quarant’anni indietro.
Prima di chiudere, una parola sulla Tee Pee, etichetta emersa nell’epoca d’oro dello stoner. Oggi sembra concentrata su forme variegate di retro r’n’r. Dopo i Limousine Beach l’anno scorso (mi spiace per voi se ve li siete persi) ed ora i Danava, tra poco pubblicano una delizia power pop a nome Sweat. A momento debito ve ne parlo, anche se siete tutti dei buzzurri piromani e rovesciatori di crocefissi. Comunque, antenne puntate sulla Tee Pee, mi raccomando. (Lorenzo Centini)
È una scelta di resistenza contro una modernità aberrante, anche nella musica che amiamo, infestato da tendenze orrende.
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