Avere vent’anni: OVERKILL – Killbox 13

All’uscita di Killbox 13 ne sentii di tutti i colori e non riuscivo a spiegarmi come mai gli Overkill non fossero definitivamente finiti nel dimenticatoio. Un conto è essere riconoscenti, un altro sopportare e tollerare ogni dischetto di qualità medio-bassa sputato sul mercato con cadenza biennale da ormai un decennio. E loro questo stavano facendo: procedere nell’ordine della quasi completa mediocrità. A salvare gli Overkill nella fama e nell’onore era il fatto che ogni volta che Bobby e soci si ripresentavano sul palco, e dico su qualunque palco, come quello del Tenax di Firenze in compagnia dell’Halford solista, loro spaccavano tutto e si prendevano i riflettori. Tu sistematicamente eri andato a vedere qualcun altro ma ti eri galvanizzato con gli Overkill.
I quali, da qualche anno, oltre ad assestare gradualmente la line-up stavano tentando un lento, graduale, oserei addirittura dire timido riavvicinamento alle sonorità classiche, privando la loro miscela anni Novanta di tutto quel groove e quei rallentamenti che certamente divertivano il loro bassista Carlo Verni (ho sempre considerato W.F.O. alla stregua di un suo album solista, tanto si prese per sé la scena). Ma tutti sapevamo come dovevano suonare gli Overkill, loro inclusi.
La novità stavolta corrispose al nome di Derek Tailer, già negli Speed Kill Hate assieme a Dave Linsk col quale dunque si ricongiunse. Entrambi sono, a distanza di vent’anni, ancora il primo e il secondo chitarrista degli Overkill, coppia più longeva in assoluto ma certamente non i nomi più redditizi, essendo Ellsworth e Verni passati per le collaborazioni con i più illustri Gustafson, Cannevino e Gant. Sul precedente Bloodletting il debuttante di turno era stato Dave Linsk.
Credo che gli Overkill abbiano ricominciato a fare lentamente retromarcia con Necroshine, il migliore di quel periodo ma comunque un buon dischetto e nulla più. La mediocrità era From the Underground and Below, cui bastava e non di certo avanzava la bellissima Long Time Dyin’, era il piatto e prevedibile Bloodletting ed era tanto altro. Killbox 13 ci diede un assaggio degli Overkill in grado di suonare un dischetto accettabile, un altro ancora prima della rinascita. E risaltò per un preciso motivo: perché precedette Relix IV ed Immortalis, due delle cose più orrende mai incise da quel moniker. Due cose che mi fanno incazzare quando sento la gente lamentarsi di di I Hear Black e del suo pazzesco trittico d’apertura.
Tornando a Killbox 13, sinceramente, non ho mai compreso l’entusiasmo nei suoi confronti e ne ricordo a malapena la sola Devil by the Tail, carina ma con una chiusura un po’ forzata e allungata, oltre a Crystal Clear, altro brano pronto a essere etichettato da mezzo mondo con l’affrettata etichetta “sabbathiano”, e più in generale ne ricordo con piacere la seconda parte (buono il ritmo di The Sound of Dying e Struck Down, così come in chiusura I Rise; buonissimo infine il tiro e l’orecchiabilità generale di Unholy). Comunque sia, scellerati ed entusiasti recensori riuscirono nel compito di farmelo comprare a scatola chiusa grazie alle loro entusiastiche affermazioni: non avevo un quattrino e quei venti euro abbondanti all’epoca avrei potuto investirli in ottime Hofbrau Munchen o Bulldog al minuscolo e unico pub di Scandicci, il A tutto birra, più o meno quindici metri quadri di locale.
Sostanzialmente questo era il massimo che gli Overkill di quel periodo erano in grado di fare entro le mura ospitali e asettiche di uno studio di registrazione. Il loro habitat era il palco e sarebbero tornati a divertirsi nel comporre solo più tardi. E cioè con Ironbound, The Electric Age (che considero il loro miglior disco del nuovo millennio) e gli ottimi titoli seguenti. Fortuna che questo periodo stava ancora terminando, ma, sarò onesto, a una recensione di Relix IV e Immortalis non saprei sinceramente come approcciarmi. (Marco Belardi)
Un po’ troppo duro. Non un album degli Overkill è brutto. Non è poco.
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