Thrash metal alla vecchia: JUDICIARY – Flesh + Blood

Arthur Rizk si sta ritagliando un ruolo sempre più importante come produttore. Ignoto ai più, destò interesse in noi europei il giorno in cui accettò di lavorare per i Kreator su Hate Uber Alles, ma già vantava collaborazioni con Cavalera Conspiracy, Enforced e Gatekeeper. Parte della sua fama la deve senza dubbio ai Power Trip, avendo assemblato il poderoso suono presente in Nightmare Logic. Nulla di nuovo: già anni addietro i Forbidden rivoluzionarono tutto e alzarono un muro di suono sulle fondamenta del thrash metal. Arthur Rizk è l’uomo cui va dato atto di averne fatto un credo negli anni della New Wave of Traditional Heavy Metal.
Me lo ritrovo davanti per l’ennesima volta oggi che escono gli americani Judiciary, prodotti appunto, per il secondo album consecutivo, proprio da Arthur Rizk. Flesh + Blood è una bella evoluzione rispetto al suono sdoganato quattro anni fa nel buonissimo Surface Noise, col quale – guarda caso – avevano generato non pochi paragoni proprio con i Power Trip. L’album ha un carattere quasi industrial senza fare un diretto e lampante uso delle contaminazioni tipiche del filone. È un prodotto senza dubbio più europeo rispetto al precedente, e la definizione hardcore punk, a più riprese chiamata in causa nel loro recente passato, qui viene meno. Nonostante tutto è con quel suffisso -core con cui ci confronteremo inesorabilmente, perché il cantante Jake Collinson, capacissimo, bercia sempre di più. Eppure Flesh + Blood, pur essendo un album americano, ha un piglio massiccio che rimanda a Gurd, Kreator e Coroner di metà anni Novanta, con tempi lenti e in linea col generale rinnegamento di quella velocità esecutiva che era di moda all’epoca. Di base i riff sono pur sempre di natura slayeriana, massicci, cattivi, di reale impatto. C’è pure l’usanza tipica dei Cannibal Corpse di accennare a una ripartenza per poi rimanere nel mid-tempo: niente di nuovo neanche su questo fronte, ma è la maestria con cui utilizzano codesti cliché che mi sorprende positivamente. Stare into the Sun è l’episodio su cui i Judiciary giocano maggiormente con l’ascoltatore, fra blast beat accennati, assoli brevi e sopraffini e un riffing sempre lento e feroce.
Flesh funge quasi da intro, come all’epoca in cui i Forbidden aprirono Green con la bellissima What is the Last Time?. A proposito, se devo menzionare a tutti i costi un riferimento a stelle e strisce a cui la musica dei Judiciary si riferisce, scelgo proprio i Forbidden del periodo Distortion e Green, due titoli ahimè troppo malvoluti all’epoca e che oggi riscontrerebbero attenzioni di tutt’altro genere. Cobalt la più ruffiana e diretta in assoluto, coi suoi riff stoppati e un piglio vagamente più immediato: è un album di riff e di suoni questo, a un primo ascolto certamente non lo apprezzerete per le canzoni o per i ritornelli. Ma è facile che avrete voglia di risentirlo, e saranno i successivi passaggi ad avere le maggiori chance di cementarlo nella vostra testa.
Album coraggiosissimo, specie per il fatto che azzera quasi completamente uno stile funzionale ma derivativo come quello di Surface Noise. Produrre un secondo album su quella falsariga sarebbe stato semplicissimo e avrebbe con buona probabilità funzionato: quante giovani band debitrici del thrash anni Ottanta (e primi Novanta) giocano sul sicuro e ci assicurano un filotto di otto, dieci album tutti simili e tutti carini nel breve volgere di un decennio abbondante? Non è proprio così che i Municipal Waste hanno finito col romperci il cazzo? I Judiciary fanno quello che facevano le band anni fa: si evolvono, esplorano una direzione. E a darmi ogni strumento necessario ad aver fiducia in loro ci sono due cose: un altro buon disco pubblicato e la certezza che non lo stanno facendo per i quattrini. Avanti così. Purché vi riesca bene, suonate quello che volete: finora è stata una tattica vincente. (Marco Belardi)
Una ulteriore dimostrazione del fatto che senza un produttore raramente i musicisti riescono a realizzare musica di valore.
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è la figura che più manca (oltre al fattore ambizione, arrivismo, non tanto perché un gruppo si sputtana ma perché per forza di cose ti evolvi di disco in disco) ai ragazzi di oggi che si cimentano con gli anni Ottanta. il produttore (ma non discografico, o manager, proprio la figura in studio di registrazione) consiglia, limita le puttanate e da’ un’impronta che a volte in passato è diventata un vero trend come all’epoca dei Morrisound. questo qua a parer mio è uno che sa lavorare e anche un po’ imporsi, e credo se ne sentirà parlare spesso
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Concordo con te su Arthur Rizk, è uno con personalità, competenze e una visione; ossia le doti che servono ad un produttore. C’è da dire che i budget spesso risicatissimi con cui lavorano i gruppi di oggi, che non hanno il supporto economico delle etichette in fase di registrazione (come invece avveniva prima della musica liquida), non consentono di valersi dei servizi dei produttori. Mi auguro solo che Rizk continui a lavorare, perché sta facendo un grande servizio al metal.
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