ENSLAVED – Heimdal

Ci tengo sempre a recensire personalmente i dischi degli Enslaved perché non voglio che gli altri li trattino troppo male. L’opinione maggioritaria tra i tizi di Metal Skunk sull’ultima dozzina d’anni degli Enslaved è tendenzialmente che hanno rotto le scatole e fanno sempre lo stesso disco, però ogni volta peggiore. Fa discorso a sé l’Azzeccagarbugli, vecchio democristiano corrente Fanfani, che parla male di qualcosa con la stessa frequenza con cui Carrozzi ne parla bene. Immagino però lo spargimento di sangue se questo Heimdal fosse passato per le grinfie di, non so, Michele Romani o Piero Tola, giusto per dire i primi due che mi vengono in mente. Quindi tocca a me: del resto la paternità ti affina lo spirito protettivo.

L’ostacolo principale che devo affrontare adesso è fare in modo che questa recensione non assomigli troppo a quella dell’ultimo Darkthrone; non perché il senso non sia alla fine lo stesso, ma perché gli ordini di grandezza di cui si parla sono diversi. Partiamo dalla similitudine maggiore: come quegli altri, gli Enslaved si sono adagiati su uno stile preciso e da lì grossomodo non si spostano. Questo non costituirebbe di per sé un problema, ovviamente, ma la mia impressione è che loro stessero evolvendo e che si siano fermati in un punto a caso durante la transizione, prima di arrivare a una forma compiuta. La sensazione infatti è troppo spesso quella di trovarsi a metà di qualcosa, con vari elementi che si scontrano senza fondersi, una giustapposizione di pieni e vuoti alternati senza che contribuiscano a creare un tutto organico; nei momenti meno ispirati diciamo un né carne né pesce con tutto il carico negativo di significante. Per questo, credo, gli Enslaved degli ultimi anni suonano strani: prendono bene, tendenzialmente, ma avverti che c’è qualcosa di sbagliato, o quantomeno di incompiuto.

Ma anche questo potrebbe non essere visto in un’ottica negativa. È il loro stile, il modo in cui si differenziano dagli altri: del resto tutto si può dire meno che gli Enslaved non siano un gruppo originale. Quindi alla fine è la solita questione di gusti. I Darkthrone, invece, quell’evoluzione l’avevano già compiuta, per poi bloccarsi una volta raggiunta una forma definita; chiaro che i dischi dei Darkthrone poi hanno qualche differenza gli uni con gli altri, ma grossomodo sempre quello è. La differenza sta nel fatto che i Darkthrone tirano fuori un disco ogni due anni senza preoccuparsi troppo delle rifiniture o di scartare un’idea non troppo brillante, mentre gli Enslaved hanno un processo compositivo molto più ragionato e pongono molta più attenzione alla struttura dei pezzi e agli arrangiamenti.

Quindi no, non c’è quel senso di fastidio che ormai mi hanno fatto venire i Darkthrone. Non lo stesso si può dire per gli altri tizi di Metal Skunk, ma anche qui: gusti. Peraltro questo Heimdal mi pare riuscito particolarmente bene rispetto all’ultima parte della discografia, e qualche elemento peculiare sono comunque riusciti a inserirlo. L’approccio progressive ad esempio tende a essere ancora più predominante, e inoltre in qualche modo è reso ancora più personale, senza rifarsi troppo a questo o a quell’altro riferimento del genere. Qui poi arriviamo alla solita questione: anche volendo, non saprei cosa dire di male su Heimdal. Gusti. Fortunatamente nel 2023 non si è più costretti a comprare i dischi a scatola chiusa. (barg)

4 commenti

  • Comprato il CD a scatola chiusa, mi sta piacendo molto. Ma il mio parere è relativo visto che mi piacque pure Mardraum 🙂

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  • D’accordo su tutto, ma non che facciano lo stesso disco. Lo stesso stile sì, ma io sento questo molto diverso dai due precedenti. Quelli non mi erano piaciuti, questo lo trovo ancora un po’ ermetico e devo ascoltarlo bene. C’è molta psichedelia, e voglio ragionarci bene. Ma che ci sia la sensazione che non arrivino al traguardo al 100% è vero.

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  • Un altro Lorenzo

    Herbrand Larsen era una bussola notevole.

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  • La sparerò grossa: è quello che mi piace meno della loro discografia. Ma è anche vero che l’ho ascoltato solo due volte quindi… alla posteriorità l’ardua sentenza.

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