We’re gonna have a real cool time: Love Gang, Molten Gold e Freeroad

Chi non vorrebbe essere libero? Libero di farsi una corsa in moto (se se ne ha una e non si ha paura della velocità), di godersela, di dire che un disco fa schifo perché è questo che fa, o che un altro è una gran figata anche se non se lo caga nessuno o quasi. Oggi mettiamo in fila tre uscite recentissime, tutte esordi, tutte più o meno heavy psych e rétro. Che va bene che il revival non è chissà che personalità, ma il rock’n’roll, anche quando diventa heavy, è goduria, sfrenata. A noi va bene così. O no? Tre band di tre revival un po’ diversi, ma che in comune hanno la voglia di suonare sfrenate e libere. Non poca cosa.

Si chiamano LOVE GANG e tranquilli, se sul motore di ricerca digitate “love gang band” non succede nulla di male. Da Denver, Colorado. Di quelli per cui esiste un prima e un dopo Altamont. E loro si collocano ovviamente dopo. Un attimo dopo, perché suonano esattamente come quell’istante in cui le band garage più sporche (americane, australiane, in parte inglesi) si stavano lasciando influenzare tanto dagli Stooges che dai Sabbath. È esattamente quel sottobosco primi ’70 a cui mi riferivo quando scrivevo dell’album dei Tenebra. A loro dovrebbe piacere un casino Meanstreak. E pure a me, ché se i Black Sabbath sono la mamma amorevole, gli Stooges sono il padre alcolizzato e manesco che ti ha fatto capire prima degli altri che la vita è una merda. Non puoi non riconoscerglielo. C’è un brano che si intitola Blinded by Fear. Ovviamente non c’entra nulla, ma con un titolo del genere non poteva che essere la migliore: hammond acidi e fuzz a pioggia. Il boogie di Shake This Feelin’ sentitelo e ditemi se non è evidentemente un prequel della NWOBHM. Gran bel disco. In campo hard/garage era da un pezzo che non me ne capitava uno così selvaggio e viscerale. Musica rozza, da biker, da strada.

L’altra mattina ascoltavo Futures Past dei MOLTEN GOLD per bene per la prima volta, mentre mi recavo a lavoro, e stavo per mandare in vacca tutto e non presentarmi in ufficio. Perché mai uno sano di mente dovrebbe starsene dieci ore davanti ad un computer quando fuori c’è la vita e ci sono dischi così. Ed è pure un esordio. Pensate alla botta, al respiro del pezzo di apertura, Rebirth. Già, rinascita. Uno space prog rock settantiano guarnito di bubblegum synth. L’entrata in scena di Abraxas, il cantante, ricorda Francesco Di Giacomo, “paragone da prendere con le pinze” (cit: Piero Tola). Alla centesima, almeno, volta che riascolto il pezzo mi è venuta l’illuminazione: è una specie di versione heavy psych de La Convenzione di Franco Battiato. Di prog, quello buono, ce n’è tanto. Di quello rock’n’roll, gentile, flower power. In fondo mi ricordano un’operazione simile, tentata anni fa per un pubblico più mainstream dai The Soundtrack Of Our Lives. Prendiamo con le molle pure questa. I Molten Gold sono più heavy e non hanno bisogno di giustificazioni per essere trattati qui. Anche più hippie. Loro, ecco, ad Altamont non sembra sappiano cosa sia successo, a tratti (Silverback, perfetta psichedelia west coast). Di un disco di sette canzoni, le prime quattro sono solamente magnifiche. Sons of the Morning Star ha pure una parte terzinata alla Maiden, che fa subito casa. Apice del tutto Bleeding Over, anche se comincia con un funk. Poi è un’altra storia. Strofa alla Ian Anderson e ritornello killer. Certo, Woodstock e l’isola di Wight deve mancare pure a voi, ma, fidatevi, musica bellissima. E ve lo dico, è culo che la parte finale del disco sia meno incisiva. Altrimenti mi sarei trovato in men che non si dica a bordo del primo van floreale diretto in Norvegia. Già, perché i Molten Gold da lì provengono, anche se uno, il batterista, è paesano nostro. Non crediate che se i dischi vengono recensiti in una multipla valgono meno. Se a fine anno Futures Past non si troverà nella mia top 10 significherà solo che sarà stata un’annata davvero memorabile.

Scappare in Messico è un classico per dei renegade, ma i FREEROAD, pure se intitolano un brano Five Hours to Mexico, proprio da lì provengono. Eppure musicalmente li direste albionici. NWOBHM, per la precisione. Do What You Feel riffeggia ed inneggia come dei novelli Diamond Head. Prendiamolo con le pinze, pure questo paragone, che è bello alto. Però i Freeroad divertono. Il suono è vintage, il modo di suonare e cantare e rétro, l’approccio è quello di una volta. Revival. Ma tra tanta NWOTHM, qui le canzoni girano, si fanno cantare e si muove il culo. Un disco rock’n’roll, e questo giustifica l’accostamento con gli altri due dell’articolo. Pure breve, e non è detto che durando di più avrebbe funzionato, perché il gruppo è giovane e non ha ancora tantissime cartucce. Ma quelle che ha son buone. C’è poi un po’ di quell’hard rock ruffiano e guascone, tardi ’70, Thin Lizzy, Blue Öyster Cult. Bella roba insomma. Per ora non ci stracciamo le vesti, ma resteremo sicuro sintonizzati per il prossimo capitolo. (Lorenzo Centini)

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