Abbiamo già uno dei dischi black metal dell’anno

Non è mai stata mia abitudine scrivere di un disco prima di averlo ascoltato per intero, ma questa recensione avrei potuto vergarla fin dal giorno del pre-order agli inizi di gennaio. Si potevano ascoltare in anteprima tre brani (sui sette totali) e fin dal primo momento ci si accorse che un certo disco cardine della scena black metal norvegese aveva trovato un erede dopo ventinove anni. In the Shallows of a Starlit Lake sembra a tratti un In the Nightside Eclipse parte seconda e penso che sulla faccia della Terra non esista un solo blackster della prima ora che non avesse sperato che gli Emperor, prima di percorrere altre strade come quelle di Anthems to the Welkins at Dusk, pubblicassero almeno un altro disco in stile Nightside. Non è stato così e, sebbene quell’album abbia ispirato migliaia di altre band che hanno fatto uscire decine di migliaia di altri dischi, non è mai stato né avvicinato né tantomeno pareggiato.

Oggi un oscuro gruppino australiano di terza/quarta fascia il cui nome, Vahrzaw, sembra la storpiatura della capitale della Polonia, con alle spalle già quattro full, tre EP e un paio di split usciti dal 2006 (anche se la prima incarnazione della band risale ad almeno dieci anni prima), estrae dal cilindro il classico coniglio bianco (o meglio nero) e piazza l’acuto, pubblicando il disco più simile a In the Nightside Eclipse che riesca a ricordare, come se esistesse una macchina del tempo e di colpo ci trovassimo di nuovo nel 1995 un anno dopo l’uscita del Capolavoro, trepidanti in attesa dei successori di Towards the Pantheon o Into the Infinity of Thoughts. C’è lo stesso feeling tragico e notturno, lo stesso suono delle chitarre in tremolo-picking apocalittico, lo stesso tipo di orchestrazione delle tastiere sinfoniche, la stessa ricerca di melodie struggenti e trascinanti, le stesse esplosioni in blast beat in dissolvenza.

Gli Emperor quando avevano lo stesso numero di ascoltatori dei Vahrzaw

Il bello è che fino a oggi la carriera dei Vahrzaw non è che potesse definirsi prodigiosa. Io ho un paio di altri loro dischi che tutto sono fuorché memorabili, dediti principalmente ad un blackened death metal assai comune nella loro terra d’origine e neanche particolarmente distinto. Nulla che avrebbe potuto far presagire questo exploit, perché, se è vero che In the Shallows of a Starlit Lake si richiama a un disco uscito una vita prima, è altresì vero che riuscire a rifarsi in modo così convincente un’opera che ha avuto innumerevoli tentativi d’imitazione – tutti andati a vuoto – non può essere ignorato. L’originalità nella musica (e non solo nella musica) non è l’unica cosa che conta; se l’unica musica degna di essere ascoltata fosse quella assolutamente originale, finiremmo per possedere una trentina di dischi in tutta la vita, quelli e solo quelli, che due palle mortali. E finiremmo per disprezzare pure i capostipiti per sopraggiunto sfinimento. Ben vengano dunque le copie, se sono in grado di offrire le stesse emozioni che hanno saputo darci i loro Maestri (e i Nostri Eroi, aggiungerei).

Uno dei dischi dell’anno è uscito a gennaio, io spero che se ne parli parecchio e che non si smetta di parlarne nel corso di questo 2023 perché per quanto mi riguarda difficilmente uscirà qualcosa di più emozionante. Questo è, tra i tanti possibili oramai, il black metal che più adoro, non riesco a smettere di ascoltarlo – per rimettere subito dopo In the Nightside Eclipse, sia dato a Cesare quel ch’è di Cesare – e sia sempre benedetta la Storia che ciclicamente si ripete. (Griffar)

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