Un po’ di black metal dalla Terra d’Albione

Recentemente nella patria dei Cradle of Filth è uscita una certa quantità di musica valida, anche se per grazia di vari demoni assortiti mai neanche vagamente rassomigliante all’ultima meno che mediocre fatica della storica band di Dani Filth.

Incominciamo allora con SACRED SON, nato come progetto solista del polistrumentista e compositore Dane Cross e, già dal secondo album, ampliatosi a gruppo vero e proprio, fino ad arrivare alla forma attuale di sei componenti. Dane Cross è il tipo che compare sulle copertine dei primi due album, tra le più perculate di ogni tempo, ma forse ci si dimentica che gli inglesi sono universalmente noti per il loro humor e il loro sarcasmo. È pacifico che in questo senso – e solo in questo – vadano intese le immagini che adornano Sacred Son e Arthurian Catacombs, che mostrano questo tizio sorridente in contesti quasi vacanzieri mentre, al contrario la musica, è un black metal feroce ed apocalittico che non lascia respiro. Il terzo album s’intitola The Foul Deth of Engelond ed è un concept su come venne soffocata nel sangue una rivolta di agricoltori e mezzadri nell’Inghilterra medioevale. Il disco si compone di quattro lunghi brani più una breve intro e ritorna esattamente alle sonorità molto darkthroniane dell’esordio, con in più stacchi e situazioni simili al medieval black metal di gente come gli Ungfell. Tra sfuriate a velocità della luce e momenti decisamente più pesanti il risultato finale soddisferà chi apprezza il black metal dall’approccio quasi cinematografico: la tragicità degli eventi narrati si rispecchia egregiamente nella musica, la tensione si taglia a fette, la prova alla voce di Dane è più che apprezzabile e il songwriting vario ed ispirato si rivela ottimamente in grado di comunicare la tragedia riportata alla luce dopo secoli d’oblio. Registrato da Chris Fullard (Ulver, Sunn O))) ) e mixato da Randall Dunn (Wolves in the Throne Room) il disco ha dei suoni perfetti e ne è caldamente raccomandato almeno l’ascolto.

Penalizzati un po’ dalla scelta di un nome fin troppo abusato (su Discogs si contano 45 omonimi), tornano i REIGN con un eccellente EP intitolato Anti-Human. Nati nel 2014, ma effettivamente attivi solo negli ultimi anni, i Reign hanno pubblicato due split Lp usciti solo in vinile e due Ep: Through Ceaseless Downpour di un paio di anni fa e questo Anti-Human, entrambi usciti recentemente anche in versione CD autoprodotto, purtroppo in versione limitata a sole cinquanta copie con diversi brani in più al loro interno. Sono una versione moderna degli Obtained Enslavement, black metal sinfonico oscuro, molto melodico e dal forte tanfo di zolfo. Velocissimi, aggressivi eppure molto catchy, i Reign sono una piacevole sorpresa per chi ha nostalgia dei suoni dei leggendari norvegesi autori del più superlativo album di symphonic black metal di sempre, cioè Witchcraft. Adesso non facciamoci prendere troppo dall’entusiasmo: i Reign non raggiungono i livelli di Witchcraft, ma non c’è mai riuscito nessuno e sarebbe pure ingeneroso pretenderlo. La one man band londinese compensa la mancanza di originalità con brani eccellenti e la scelta di un punto di riferimento illustrissimo. E il risultato finale è di ottimo livello. La versione Cd contiene cinque brani (più due brevi interludi) ben scritti e ben suonati. Non sarebbe male se uscisse finalmente un full (possibilmente con soli brani inediti) per vedere se possono ambire ad un pubblico meno di nicchia qual è il loro odierno.

Chiudiamo con il forest/epic/pagan black metal dei gallesi YSBRYDNOS, il cui pompatissimo The Forest Howls At Dusk è stato celebrato in lungo e in largo per un paio di mesetti prima di venire soppiantato da altro, in quest’epoca che tollera che tutto venga fagocitato, digerito ed espulso in tempi meno che brevi. Su partiture di black epico e melodico, eppure tendenzialmente veloce e dalle sonorità decisamente raw come il black di questi anni recenti esige, vengono intarsiate trame che utilizzano largamente flauti e strumenti dai forti connotati folk (io ci sento arrangiamenti di campane), tastiere arcane dalle sonorità molto oscure nonché voci femminili suadenti per opera della stessa flautista Agata Tutkai, membro effettivo della band e non semplice ospite. Cinque brani più un interludio, minutaggio nella norma, buona diversificazione tra un brano e l’altro, alto tasso di aggressività. Le celebrazioni di quando il disco era appena uscito non erano immeritate; l’esordio dei gallesi è decisamente apprezzabile. (Griffar)

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