Seattle, la scena grunge e l’ultima età dell’oro del rock: intervista a Giuseppe Ciotta

Neanche un anno fa pubblicammo la recensione del libro di Giuseppe Ciotta, In Catene, un’opera che è riduttivo definire semplice biografia e che divorai in pochissimi giorni, complici l’argomento e il torrente d’aneddoti sulla amata scena all’ombra dello Space Needle. Ci torniamo sopra con qualche domanda allo scrittore, nel frattempo alle prese con la prefazione di Not For You e con quella di Total F*cking Godhead, biografia di Chris Cornell in uscita a fine aprile. (Foto di copertina: Giuseppe Ciotta ph.)
Innanzitutto vorrei chiederti come hai trovato la Seattle odierna, più nelle persone che nell’estetica e nella fisionomia. Quanto si respira oggi dell’aria del Music Bank, e quanta consapevolezza c’è d’aver attraversato quell’epopea neppure troppo tempo fa, in chi sta vivendo Seattle?
Alcune figure-chiave della scena sono ancora lì, soprattutto quelle lontane dai riflettori nei giorni del boom mediatico ma decisive nell’esplosione del Seattle Sound, disponibili tuttora a condividere aneddoti e curiosità con i tanti visitatori affamati di grunge. Io stesso ne sono testimone, e non mi riferisco soltanto a chi è apparso nel mio libro In Catene – I Giorni di Layne Staley e gli Alice In Chains (2020, Officina di Hank) ma anche ad altri, le cui dichiarazioni non vi hanno trovato spazio e torneranno utili nei miei progetti futuri. Più in generale, la gente del Nord-Ovest è inizialmente circospetta e distaccata – soprattutto quella legata ai musicisti che non ci sono più – ma in un batter d’occhio ti accoglie a braccia aperte quando si accorge del tuo amore per le loro eccellenze, non solo musicali, e delle tue competenze in merito. Difatti gli sembrava qualcosa d’esotico un giornalista siciliano a zonzo per le strade di Seattle come un detective, intento a cercare di ricostruire l’epopea di una band e di un genere musicale nati ormai oltre trent’anni fa. Per mia fortuna questo ha spinto la gran parte dei miei contatti in loco a essermi di grande aiuto. La magia e la coscienza d’aver incarnato l’ultima età dell’oro del rock – come la chiamo io – traspaiono ancora in diversi angoli della città, in particolare quelli legati ai luoghi che fecero da chioccia all’allora nascente scena locale. Alcuni club storici resistono; altri si trasformano mantenendo la loro funzione sociale di collante culturale, ben consapevoli dell’eredità magniloquente che portano; altri ancora chiudono, perché i proprietari non possono competere con l’inarrestabile cementificazione edilizia a Emerald City, che ha trasformato buona parte del centro in un insieme di complessi residenziali. Non sono mancate negli anni delle petizioni municipali che hanno mirato a salvaguardare, almeno per il momento, tanti luoghi-simbolo nella Città Smeraldo: penso allo Show Box, alla Benaroya Hall, all’Off-Ramp – che tiene duro col nome di El Corazon – al Bad Animals Studio che, appunto, è rinato nei pressi di Capitol Hill dopo che lo storico stabile in cui era ubicato a Downtown era stato venduto. A Seattle le sale-prove non spuntano più come funghi ma restano frequentate da giovani ispirati dai loro più illustri concittadini, per quanto anche lassù il rock non sia più la musica del momento.
Sono molto incuriosito dalle tempistiche del tuo lavoro sul campo. Gli incontri con i vari personaggi-chiave li avevi già programmati dall’Italia o sei giunto a loro per gradi, grazie anche alle conoscenze che man mano facevi in città?
Entrambe le cose, che alla fine si sono compenetrate. Ho studiato e approfondisco tuttora le vicende della musica del Nord-Ovest statunitense, giacché la seguo da quand’ero adolescente. Di conseguenza fin da allora avevo iniziato a fantasticare di visitarlo in lungo e in largo, non smettendo mai di documentarmi con qualsiasi tipo di materiale disponibile, anche d’importazione. La cosa mi ha fornito un background tale che la prima volta che sono stato lì praticamente riuscivo a orientarmi senza quasi usare il navigatore, talmente mi si erano impressi in testa nomi, strade, quartieri, località limitrofe, club, studi di registrazione… Fin da ragazzo, come fan, i miei viaggi all’estero avevano avuto la connotazione di veri e propri pellegrinaggi nei luoghi legati alla storia del rock, raccogliendo sul posto ogni informazione in merito; poi, da giornalista, questa mia indole ha assunto una connotazione più professionale, perché ero consapevole che quei soggiorni negli States o nel Nord Europa mi sarebbero tornati utili nel lavoro. Così, passo dopo passo, ho iniziato a costruirmi una rete di contatti – da Seattle a San Diego, da Londra a Monaco – che è stata decisiva. In tutto il tempo che ho trascorso in America, comunque, oltre a visitare i luoghi-chiave del grunge e dell’alternative in generale, ho potuto frequentare alcuni dei miei intervistati; con altri non è stato possibile, perché non erano disponibili mentre mi trovavo lì, e ci siamo rifatti attraverso lunghe chat una volta rientrato in Italia, ripromettendoci d’incontrarci quando tornerò negli Stati Uniti. In ogni caso, con entrambi sono tuttora in contatto.
C’è un gruppo minore di quegli anni e quelle zone per cui hai sempre avuto un debole? Vorrei chiederti in particolar modo cosa ne pensi dei Tad, che erano decisamente conosciuti ma hanno avuto un crollo d’immagine pazzesco proprio negli anni in cui gli altri raccoglievano i milioni…
“Minore”, in questo caso, per me non ha un’accezione di valenza artistica ma lo intendo soltanto come un successo commerciale inferiore a quello dei quattro grandi del grunge: Nirvana, Pearl Jam, Soundgarden ed Alice In Chains. Di conseguenza – a parte gli Screaming Trees, che porto nel cuore fin dai tempi dell’imprescindibile Buzz Factory (1989) – un gruppo che adoro ma che non ha avuto fortuna sono i Truly, per me allo stesso livello di quelli citati prima. Ho conosciuto Robert Roth, il loro frontman, una figura fondamentale nella scena: buon amico di Kurt Cobain – difatti era in predicato d’entrare nei Nirvana alla chitarra, prima del fugace Jason Everman – nonché stretto collaboratore del poeta rock Jim Carroll. I Truly vantano una sezione ritmica composta da due musicisti leggendari da quelle parti: il batterista Mark Pickerel, ex Screaming Trees, e il bassista Hiro Yamamoto, co-fondatore dei Soundgarden. Il loro Fast Stories from Kid Coma del 1995 è un concept album affascinante, che in passato ho avuto modo di definire prog grunge. Sono tornati insieme dopo una lunga pausa e spero ci delizino ancora con la loro coraggiosa proposta, lontana dai soliti canoni del rock in flanella. Riguardo ai Tad, al di là della simpatia per il leader sanguigno e dell’ammirazione per i loro riff, che incarnano il paradigma del chitarrismo grunge, devo dire che avevano una concorrenza decisamente spietata, e il loro non essere interessati alla melodia o alla costruzione della forma-canzone li ha decisamente penalizzati. Pertanto consiglio il loro 8-Way Santa del 1991, prodotto da Butch Vig; forse l’unico episodio discografico dove il gruppo tentò d’addomesticare la sua proposta musicale per farsi largo nel mainstream e, difatti, entrarono brevemente nel giro della Warner Bros.
Giovani cacciati dai propri genitori e costretti a dormire in garage o nelle sale-prove; uno scontro generazionale direi eterno, con madri e padri educati attraverso il perbenismo degli anni Cinquanta. Cornell, Staley, Cobain e le loro personalità nascono anche da quello. Nel bene e nel male, non credi che quel concetto di rockstar sia irripetibile, e che la tecnologia oggi “distacchi” sia gli uni sia gli altri?
Sono concetti che generalmente condivido, ben espressi da Douglas Coupland nel suo illuminante romanzo-saggio del 1991: Generazione X. Credo che però, nella poetica grunge, più che lo scontro ideologico e le rivendicazioni culturali nei confronti delle generazioni precedenti – leitmotiv imperante nel rock – spicchino maggiormente vere e proprie battaglie personali in cui gli ascoltatori del periodo s’immedesimarono totalmente: infanzie negate, famiglie spezzate, alienazione giovanile esasperata da modelli di finto benessere tramandati dall’edonismo yuppie… Ecco, personalmente penso che siffatte questioni abbiano influenzato maggiormente i personaggi da te citati, rispetto al classico “canto di ribellione” che – proprio perché annacquato dall’evanescente mainstream rock anni ’80 – aveva perso gran parte della propria carica sovversiva. Da genitore e zio, sono consapevole che le nuove tecnologie rappresentino per i giovanissimi un luogo virtuale in cui a volte trincerarsi, rivendicando la proprio autonomia, diversità e indipendenza rispetto alle generazioni precedenti, decisamente in affanno nel tenere il passo. Ma non è questo il punto. Oggi, così come quand’ero giovane, sono convinto che il ruolo degli adulti sia quello d’essere d’esempio. Se ci riuscissimo, avremmo già fatto il nostro.
La sofferenza di Layne, Weiland, Wood fu un po’ il motore del loro talento. In un mio vecchio articolo scrissi che s’incita un vecchio e malato Ozzy Osbourne a salire sul palco al più presto, ma che – a parer mio – non dovrebbe più essere spinto verso un tour, né dalla moglie e manager, né dai discografici, né tantomeno da noi fan. Cosa ne pensi?
Condivido il tuo incipit, poiché è così in ogni forma espressiva, per quanto non manchino artisti che sprigionino creatività nei momenti di maggior serenità; mentre per altri è come se si alimentassero dei vuoti dell’esistenza, con l’impellente necessità di riempirli attraverso un’urgenza espressiva che ha regalato al mondo autentici capolavori, non solo musicali. Sebbene le cronache del rock ne siano piene – penso a Syd Barrett, Roger Waters, Brian Wilson, il John Frusciante post-successo di massa, lo stesso Cobain – lo spremere i musicisti da parte di multinazionali e manager non è qualcosa che ho riscontrato molto nel vissuto del frontman dei Sabbath, se non nel suo periodo in seno alla band di Birmingham. Lo dico perché ho curato l’edizione italiana di Ozzy – La Storia, del neozelandese Ken Paisli (2020, Il Castello – Chinaski Edizioni), ovvero la più aggiornata biografia sul Madman, dove si può cogliere nella sua interezza quanto la volontà cui ti riferisci tu sia più sua che di chi lo circonda, nonostante gli ovvi interessi in ballo. Lo stesso Osbourne ha definito l’ultimo Ordinary Man (2020) come il suo personale bisogno di tornare a fare musica per riconnettersi col pubblico dal palco, cosa che a oggi non ha avuto un seguito prima a causa dei suoi risaputi problemi di salute e poi per via della pandemia globale. Il fatto è che il genio non tende mai a riprodursi in copia-carbone; di conseguenza, le pressioni cui certi musicisti sono sottoposti – e quelli del Seattle Sound ne furono un esempio lampante – non si sposano con l’esigenza artistica che li spinge a creare spontaneamente. I meccanismi della grande industria dell’intrattenimento, però, sono sordi a queste necessità e tendono a replicare come in una catena di montaggio tutte le proposte che ottengono un notevole riscontro commerciale, a discapito della salute mentale dei loro autori.
Data la mia passione per la batteria, la domanda secca ricade lì: Grohl, Kinney o Cameron? L’altro musicista (non necessariamente batterista) di talento assoluto di quella Seattle?
Grazie per la domanda, anch’io ho iniziato ai tamburi prima di passare alla chitarra, quindi mi stuzzica! Scelgo Grohl, senza alcun dubbio, per via della sua musicalità. È qualcosa che riscontro anche nel più tecnico Kinney: essere sempre al servizio della canzone. Cameron, per formazione professionale, tende a tempi e a pattern di batteria più complessi e arzigogolati. Sicuramente affascinanti ma, a volte, poco al servizio del brano. Non sarà certo il caso dei Soundgarden ma non sono l’unico a pensare che il drumming di Cameron nei Pearl Jam ne abbia smorzato il groove e appiattito la spinta; laddove nei Soundgarden rappresenta, per coesione stilistica, un tratto imprescindibile e distintivo: un marchio di fabbrica. Riguardo alla seconda domanda, devo dire che ce ne sono diverso in quegli anni, non soltanto a Seattle ma nell’intero Nord-Ovest. Dico Elliott Smith, che visse e spiccò il volo da Portland, in Oregon. Aggiungo i Days of the New del tormentato Travis Meek: per quanto non provenga da Seattle, il suo post-grunge acustico è d’inusitata bellezza, e posso garantirti che negli States sia i fan sia la scena musicale – anche quella indipendente da cui provenivano – continuano a sperare che il frontman si riprenda dal giogo dei suoi demoni e torni a fare musica.
Hai presentato Not for You di Ronen Givony con una prefazione, parlacene…
Sono stato lieto di scriverla e di supervisionare l’edizione italiana con le note al testo, giacché è una biografia atipica come il suo autore. Givony è un musicista e produttore di musica classica, molto stimato negli ambienti dell’arte colta newyorchese, ma è anche un grande fan di Vedder e soci, che ha visto dal vivo decine di volte. In Not for You – Pearl Jam tra Passato e Presente (2021, Il Castello – Chinaski Edizioni) Ronen ha selezionato tutta una seria di momenti-chiave nella storia del gruppo, approfondendoli come mai fatto prima, mettendo in primo piano l’impegno civico della formazione, il suo essere contro a metà degli anni Novanta e le sue innumerevoli battaglie a sfondo sociale, nonché restituendo al lettore i motivi di un rapporto così stretto – quasi simbiotico – tra i Pearl Jam e la loro fanbase.
Personalmente, scrutando oltre Ten, ho sempre avuto un debole per la sterzata di No Code (e apprezzo molto Vs. e Vitalogy) ma non vado pazzo per i loro ultimi vent’anni di musica su disco. Un album su tutti del dopo Binaural con cui dovrei rivalutarli?
La penso come te. L’intenso e ispirato disco omonimo del 2006 è l’unico che ascolto ancora regolarmente, fra quelli successivi a Yield del 1998.
Non so se hai mai letto The Frontman di Harry Browne, che descrive Bono come un gran paraculo in virtù del suo reale ceto di provenienza, dei reali motivi del suo impegno nel sociale e del vero scopo di tante sue amicizie. Molte volte si sente associare allo stesso aggettivo la figura di Vedder, e dissento in particolar modo sul fatto che Bono è come se vivesse pensando allo specchio o alla telecamera di fronte. In altri casi, chi lo ha conosciuto di sfuggita – riferendosi specie al suo rapporto con i fan – lo descrive come una persona che si rapporta con te tenendosi più o meno allo stesso livello, uno che non fa percepire lo “stacco”. Che idea hai, e cosa ne pensi della “politicizzazione” di rockstar come lui e il leader degli U2?
Ecco, Not for You di Ronen Givony ragiona anche sulle affinità/divergenze fra Vedder e Bono, che era stato un suo mito giovanile. È uno dei tanti risvolti inediti svelati da quest’interessante biografia, cui rimando per approfondire la questione. Tornando al volume da te citato, io non l’ho ancora letto ma alcuni miei colleghi sì, e ci siamo confrontati molto sull’argomento Bono. Il suo impegno nel sociale, anche su scala globale, secondo me non può essere messo in discussione. Non è presenzialismo quando t’impegni così tanto per questioni vitali ma che interessano a pochi e che, di certo, non ti porteranno a più ampi consensi nel tuo settore. Anzi, tutt’altro! E la storia degli U2 lo dimostra, come mostra anche – semmai ce ne fosse bisogno – che, se per puntare i riflettori su allarmanti urgenze umanitarie debbano scomodarsi le rockstar, allora è palese quanto sia caduto in basso lo scenario politico internazionale. Certo, è vero che quell’atteggiamento messianico di Bono – o di Bob Geldof – a volte sia pesante e puzzi di stantio ma, in certi frangenti dei ’90, anche Vedder mi aveva fatto la stessa impressione. Soprattutto tenuto conto delle sue origini agiate, al pari di Paul Hewson. Forse disse bene Ian MacKaye dei Fugazi a metà anni ’90: “Eddie Vedder è uno che vuol sempre fare la cosa giusta, ma non sa più quale sia”. In ogni caso penso che Eddie sia stato politicizzato suo malgrado e controvoglia, mentre Bono abbia ambito a quel ruolo di portavoce trans-generazionale e si sia politicizzato da solo.
Chiudo con gli Alice in Chains. Sono particolarmente appassionato al corso firmato William DuVall, tant’è che non so scegliere un album fra quei tre, mentre Dinosaurs è forse quello che ascolto più di rado. Come li vedi?
Secondo me Black Gives Way to Blue (2009) contiene le migliori canzoni del nuovo corso, ma risulta penalizzato da una produzione artistica monocolore e decisamente cupa, che non fa “respirare” adeguatamente i brani. Difatti, per quanto naturalmente oppressive, le atmosfere dei Chains storici sono invece improntante a un sound sfaccettato e con soluzioni parecchio eterogenee anche all’interno del medesimo pezzo. The Devil Put Dinosaurs Here (2013) è quello che più mi trasmette la sensazione di album organico dall’inizio alla fine e come tale lo ascolto, nella sua interezza. Rainier Fog (2018), che grazie alla BMG ho ascoltato a lungo prima che uscisse, per me è il più fresco e musicale della nuova formazione, con delle vette liriche non indifferenti e un Cantrell mai così convincente alla voce, come ho avuto modo di apprezzare dal vivo. Con questo colgo l’occasione per ringraziare te e Metal Skunk, nonché quanti seguono il mio lavoro e lo supportano. (Marco Belardi)
Complimenti vivissimi, all’autore ha fatto veramente un lavoro completo.
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