Buon album, errori consolidati: ARTILLERY – X

Tecnicamente potrei prendere la recensione di The Face of Fear e ricopiarla qui sopra, e i concetti da me espressi, oltre ai giudizi, attecchirebbero alla perfezione al nuovo X di casa Artillery. Giacché ne scrissi abbastanza da riempire il volume di una Treccani, cercherò oggi d’essere più sintetico che posso.

Da segnalare c’è il primo album dei danesi senza Morten Stutzer, chitarrista e fratello di Michael, in formazione sin dal primo Fear of Tomorrow. Deceduto il due ottobre di due anni fa, Morten è stato sostituito da Kraen Meier. Quest’ultimo fu membro storico dei Sacrificial, figli minori della scena thrash danese alla quale presero parte gli ottimi Invocator di Excursion Demise e Weave the Apocalypse. Provate, in caso, ad ascoltare il loro Forever Entangled del 1993, non è male.

Rispetto a The Face of Fear, l’appena pubblicato X suona più aggressivo specie nel comparto sonoro, ma, ricalcandone in tutto e per tutto le intenzioni, innesca campanelli d’allarme che situazioni come questa prevedono anziché scongiurare.

artilleryX

Per cominciare, non si inaugura un disco con uno o due pezzi dichiaratamente thrash per poi mettere in atto tutt’altro. Vuol dire utilizzare il thrash metal unicamente a mo’ di specchietto per le allodole. Una cosa del genere è perdonabile se hai per le mani Disciple, il miglior brano inciso dagli Slayer da metà anni Novanta in poi, e se gli accodi la restante porzione di God Hates us All. Ma se incidi due canzonette di merda pur di dare al tuo pubblico, che non è vasto, l’illusione di aver intrapreso codesta direzione, per poi fare dell’altro, allora non ci siamo proprio. Per non parlare dell’effetto pimp my ride cui sono sottoposti determinati brani. Partiamo dai titoli: In Thrash we Trust. Non è vero un cazzo.

In Thrash we Trust, traccia numero due di X, oltre ad essere davvero banale, per non dire brutta, mi ricorda quei titoloni per mezzo dei quali i Destruction, a inizio anni Duemila, subito dopo aver fatto di tutto per rimodellare il thrash nella peggior maniera ipotizzabile, si autoelessero alla stregua dei Manowar del jeans strappato. Idealisti, oltranzisti, estremisti, in realtà parecchio fancazzisti e incapaci di durare per più di due o tre album, esattamente come capitatogli agli esordi. Gli Artillery non debbono prendere come modello quegli sciagurati tedeschi, ma dovranno capire una cosa: che Michael Bastholm Dahl non è un cantante ideale per suonare thrash metal, essendo più adatto al metal classico, generico, tradizionale, purché con una bella carica melodica al suo interno. E che ogni volta che vanno in quest’ultima direzione, a prescindere dalla resa vocale, gli riesce benissimo. Non sto scherzando, gli Artillery non hanno i connotati per fare thrash metal in un modo decente, non più. Sono un’ottima band heavy/speed, spinta dall’attuale cantante e dalla facilità con cui creano melodie vincenti.

Ve la ricordate Pain, la settima traccia del precedente disco? È una delle più belle canzoni di metal classico che abbia sentito negli ultimi anni, e l’hanno fatta gli Artillery. Un gruppo che, purtroppo, si porta appresso l’etichetta del thrash metal nonostante Terror Squad e Flemming Ronsdorf siano ormai un lontanissimo ricordo. A un certo punto è necessario un certo coraggio nel prendere posizione, e questo ai danesi non sta affatto riuscendo.

Peccato, perché X è pressoché sul livello di The Face of Fear nonostante quella produzione un po’ pompata e appesantita. Ma si porta appresso i soliti difetti strutturali del suo predecessore, il voler costruire a tavolino una variopinta tracklist pur di non scontentare nessuno, assegnando agli episodi peggiori il compito d’onorare (ma come?) il passato incombente.

Artillery-scaled

La parte centrale del disco, dalla terza traccia indicativamente fino alla settima, è da antologia. Turn up the Rage ha gli Iron Maiden addosso, e la coppia In Your Mind/The Ghost of Me merita certamente un approfondimento. Trattasi dei due migliori episodi del disco: la prima è una sorta di omaggio al metal anni Novanta sulla scia di quanto riscontrato nell’ultimo Armored Saint (cosa che senza Michael B. Dahl non sarebbe stata possibile); la seconda è invece una power ballad tutta in crescendo, molto tedesca come concezione, dal ritornello rabbioso ed esplosivo. Nel finale se la cava discretamente la sola Eternal Night, segno che undici tracce, tante quante erano quelle di The Face of Fear, sono un viaggio lungo il quale i cali fisiologici si presenteranno inevitabilmente. Cominciare a pubblicarne due o tre in meno potrebbe essere la soluzione, il problema è che gli Artillery sono sostanzialmente dei testoni.

La qualità dei loro dischi, ultimamente, è piuttosto alta, ma il rischio è che gli Artillery non s’accorgano dei mezzi passi falsi, ritornandoci sopra non due, o tre, ma un’infinità di volte. Diamogli tempo suona un po’ come una puttanata, dato che qua dentro suona gente che ha scavalcato il sessantesimo anno d’età. Direi, piuttosto, che facciano come cazzo gli pare: l’importante è che si divertano nel farlo, e, a quanto pare, nonostante i recenti incidenti di percorso non è certo la grinta, né la voglia, a mancar loro. (Marco Belardi)

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