ANVIL – Hope In Hell (The End Records)
Prima dell’uscita, nel 2009, del (bellissimo) documentario Anvil! The Story of Anvil, che ha dimostrato una volta di più, nell’inevitabile confronto con This is Spinal Tap, come la realtà riesca sempre ad arrivare molto più oltre della finzione, l’annuncio di un nuovo album dei canadesi sarebbe stata accolto dalla maggior parte di noi con una tiepida scrollata di spalle. È fin troppo scontato ricordare come il recente, modesto ritorno in auge degli Anvil sia interamente legato allo strameritato successo che ha baciato la pellicola. Chissà cosa avranno provato degli autentici working class heroes quali Lips e compagni, dimenticati dal pubblico e sopravvissuti a loro stessi con caparbietà rara (otto full pubblicati nell’indifferenza generale nel ventennio 1990-2010: alzi la mano chi mi sa citare almeno un paio di titoli senza controllare su Metal Archives) a ritrovarsi all’improvviso sotto i riflettori di circuiti chic come il Sundance, con Michael Moore che definisce The Story Of Anvil il più bel documentario degli ultimi anni. Nel 2011 esce Juggernaut Of Justice. Sull’onda dell’hype, vende benino. Tutti lo applaudono come uno dei loro migliori lavori di sempre, pur essendo rimasti nella maggior parte dei casi (come il sottoscritto, del resto) a Pound For Pound o giù di lì. A pensar bene, si chiama eccesso di indulgenza, giustificabilissimo per tutti noi che ci siamo commossi con le disavventure del trio di Toronto, costretto a indebitarsi con i parenti per registrare ancora un altro album o a imbarcarsi per l’Europa per suonare di fronte a quattro gatti (perché se non vi siete commossi con Anvil! The Story Of Anvil o non siete metallari o avete il cuore sotto la suola delle scarpe). A pensar male, si chiama revisionismo peloso. Certo che era carino Juggernaut Of Justice. Ma magari lo era anche Plugged In Permanent, che allora non ci filammo perché, giustamente, dovevamo stare dietro al death svedese o al gothic doom inglese.
Gli Anvil sono un ottimo gruppo che ha raccolto meno di quanto gli spettasse. Ma se non sono mai diventati davvero grandi è perché davvero grandi non sono mai stati, non per il destino cinico e baro, che pure ci ha messo lo zampino. Anche il loro ruolo storico appare un po’ sopravvalutato. Avevano indurito il canone priestiano in una maniera che era quasi proto-thrash (pur in assenza di quella componente punk che è il vero pilastro del genere). Metal On Metal è uno di quei dischi che ogni appassionato dovrebbe avere in casa. Ma quando, nel 1981, debuttarono con Hard’n’Heavy, gli Accept erano già al terzo lp, per dire. Hanno sicuramente influenzato i Metallica, come riconobbe lo stesso Lars Ulrich in un’intervista inclusa nel film. Ma anche i Diamond Head hanno influenzato i Metallica, e non erano esattamente i Maiden. Quindi non c’è nulla di deludente o scandaloso se Hope In Hell (che trovate ancora in streaming su Loudwire) è noioso e bruttino. Lips ha 57 anni ed è al quindicesimo disco. Un altro lavoro solido come Juggernaut sì che sarebbe stato una notizia. Un calo di tono, invece, è fisiologico, soprattutto se gli intenti sono più cazzeggioni e rilassati del solito (titoli come Badass Rock’n’Roll e Shut The Fuck Up parlano da soli). I brani sono maggiormente snelli e hard rock, però non c’è un ritornello che rimanga in testa, una chitarra che lasci veramente il segno o, più semplicemente, una canzone che venga voglia di riascoltare, per tacere di un paio di scivoloni un po’ imbarazzanti (il riff portante di Through With You, a conti fatti manco un brutto pezzo, è quello di Smoke On The Water). E gli episodi migliori finiscono per essere quelli epici alla Forged In Fire, come The Fight Is Never Won. Ma cosa possiamo umanamente pretendere dagli Anvil nel 2013? Solo per essere ancora qui con noi si meritano la nostra stima e il nostro rispetto. Se incontrassi Lips lo abbraccerei fortissimo e gli offrirei 15 mila birre, mille per ogni disco degli Anvil. Gli direi che mi dispiace per essere stato uno dei tanti che non se li è mai filati. Nulla di personale, c’erano altre cose che mi interessavano di più, tutto qua. E scommetto che mi risponderebbe con uno di quei suoi sorrisi da boscaiolo bonaccione, immutati da oltre trent’anni proprio come i riff della sua piccola grande band.
La alzo io: “Worth The Weight”, a mio parere la vera hidden gem della discografia degli Anvil (c’è Sebastian Marino degli Overkill alla seconda chitarra), e “Back To Basics”. A dire il vero già Luca Signorelli aveva avuto l’accortezza di ripescare gli Anvil prima nel libricino “Heavy Metal – I Classici”, del 1999, e poi su “Metallus”, quindi c’era modo per il metallaro medio di scovarli e apprezzarli. Almeno, io ho fatto così.
A me “Hope” è piaciuto più di “Juggernaut”, invece, sarà perché è più hard rock e diretto (anche se un pezzo come “Swing Thing”, collisione tra Overkill e Brian Setzer Orchestra, ci stava tutto!). Che poi a te non venga voglia di riascoltarlo credo sia dovuto più a gusti personali che alla qualità dell’album più o meno oggettivamente individuabile, anche con la dovuta tara dell’essere il quindicesimo.
Insomma, secondo me è il migliore dei tre dischi post-documentario.
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io ho back to basics originale col dvd incluso. mi sento solo.
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Non lo sei. Live carino, tra l’altro.
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avoglia! beh meno male ahaha
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