Musica da camera ardente #8

backScoprii i Dead Can Dance nel lontano 1997 quando, dopo la folgorazione di Nighttime Birds, cominciai a comprare tutto quello che avevano pubblicato fino a quel momento i The Gathering. Fu nello specifico grazie al singolo Kevin’s Telescope che, oltre alla stupenda cover di When the Sun Hits degli Slowdive, conteneva un sublime rifacimento di un brano meraviglioso e perfetto, In Power We Entrust the Love Advocated, che l’anima sacra e divina di Anneke riusciva a rendere ancora più magico di quanto non fosse nella versione originale dei DCD dell’84. All’epoca il gruppo inglese-australiano aveva già smesso di produrre nuovi album, l’ultimo fu Spiritchaser del ’96, e di lì a poco si sciolse con mio grande disappunto nell’aver scoperto troppo tardi l’incantesimo delle voci di Lisa Gerrard e Brendan Perry. Dunque, lei australiana, lui inglese, quella del duo è principalmente la storia di un’amicizia ma anche la storia di una fusione alchemica di due incredibili sensibilità artistiche, tanto diverse ma così vicine allo stesso tempo da esser riuscite a creare capolavori ineguagliabili già alla loro prima prova, l’omonimo Dead Can Dance. Grazie ad Anneke mi innamorai perdutamente di questo duo ed oggi, dopo una reunion che attendevo da lustri, poterne parlare piacevolmente mi costringe a ripercorrere, una dopo l’altra, tutte le tappe della loro lunga carriera. Da sempre il gruppo si è avvalso di orchestre oltre che di strumentisti di grande talento, come il geniale Peter Ulrich, autore, qualche anno dopo la sua collaborazione nei DCD, del meraviglioso album solista Pathways and Dawns imperniato sulle sonorità degli indiani d’America.3265932210 Per i Dead Can Dance di oggi può valere tranquillamente la frase fatta secondo cui il tempo sembra non sia mai passato. In questi lunghi anni i due hanno seguito, da solisti, strade differenti. Lisa è divenuta nota al grande pubblico grazie alla colonna sonora de Il Gladiatore, dopo la quale ha continuato a cantare per i film. Fino ad oggi, fino alla “Resurrezione”: Anastasis. Ciò che alcuni di noi, gente di metallo cresciuta con Bauhaus, Joy Division, Siouxsie and the Banshees e compagnia bella, intendono per darkwave è una scatola che non si adatta perfettamente alle dimensioni del complesso stile dei DCD ma può essere un buon punto di partenza. Ancora una volta, oggi come ieri, il loro modo di comporre arte in musica può semplicemente essere definito ‘mediterraneo’ perché è proprio dalle culture popolari del Mediterraneo che essi prendono ispirazione e frammenti di idee che poi sviluppano attraverso strumenti provenienti da latitudini anche più orientali. Come ogni album dei DCD anche questo Anastasis, continuazione logica del passato, è concettualmente diviso in due dimensioni musicali i cui due strumenti principali, la voce baritonale di Perry e il contralto della Gerrard, si fondono attraverso archi e fiati con la finezza del neoclassicismo, il misticismo orientale e l’arcaismo mediterraneo e ancora una volta siamo semplicemente di fronte ad un lavoro, detto senza mezzi termini, eccelso. 

 

zola-jesus--conatus-11938-530x330In ritardassimo rispetto alla data di pubblicazione passiamo a Conatus, terzo album di questa giovane creaturina del Wisconsin, che dall’anagrafica (Nika Roza Danilova) diresti russa, possiede quel raro dono che solo alcuni dischi particolarmente ben riusciti hanno, ovvero quello di insinuarsi costantemente ed inesorabilmente nel tuo stereo. Da una ragazza dai lineamenti così eterei non ti aspetteresti tanta potenza stilistica. Il suo stile è davvero interessante e pesca senza paura o soggezione da eminenti figure del fu glorioso panorama dark/goth mondiale, come i già citati Siouxsie ad esempio, modernizzato secondo gli stilemi di un certo dream-pop odierno offerto in sacrificio per noi, avidi ricercatori e consumatori del bello. Senza paura, come dicevo, Zola Jesus si affaccia su uno dei più pericolosi generi musicali che vi siano, pericoloso innanzitutto perché inattuale e, in secondo luogo, perché sostenuto da un numero non elevato ma estremamente competente di ascoltatori assidui, e lo fa con questa particolare voce, a volte fredda, a volte calda, che ti fa pensare ad un’altra esile ma forte donna, Patti Smith. L’album in questione non si esprime certo a livelli memorabili e non offre hit che stendono bensì riesce a coinvolgere dall’inizio alla fine, offrendo una interessante immagine di questa esile donzella, pacata ma decisa, e un piccolo compendio di ciò che le ronza in testa. Chissà dove vorrà andare a parare in futuro, se ripercorrere le orme (e le sonorità) dei grandi del passato, come fa oggi senza apparentemente dare nulla più di una (notevole) reinterpretazione personale, o se tirare fuori qualche magia che la renderà immortale. Il potenziale credo ci sia, dietro quel misterioso velo.

A due passi dal freddo Wisconsin di Zola Jesus c’è il gelido Minnesota degli A Whisper In The Noise. Tra le proposte orbitanti nel post qualche cosa, principalmente rock, che reputo degne di nota e delle quali mi va di parlarvi ma che però non voglio assimilare a nient’altro. E si inizia proprio dagli americani dal nome così accattivante. To Forget è il classico disco invernale, crudo , spoglio ed etereo, fatto di atmosfere sospese, silenzi, sospiri, riverberi e note soffuse. Da ascoltare al calar del giorno, con la massima rilassatezza. Scopro solo ora essere molto più mainstream di quanto pensassi. La cosa in sé non modifica di un millimetro il giudizio positivo che ho nei loro confronti. Anzi vi segnalo pure che il disco è interamente fruibile qui.

Anche il mio interesse verso i Ronin, come tutto il resto di cui qui parlo, ha cronologicamente origine intorno all’ultima estate passata. Come tutto il resto inoltre ha necessitato del giusto tempo fisiologico per sedimentare. Durante una delle afose serate romane invito il Ciccio ad accompagnarmi ad ascoltare i ravennati per la prima volta in un posto che non conoscevo vicino casa sua, “un campo circondato dalle solite rovine romane” ci diciamo, consapevoli della superiorità del lascito imperiale. La band nasce intorno a fine anni ’90 per riunire, e cito perché non trovo definizioni migliori, il western morriconiano, l’isolazionismo chitarristico e certo folk mediterraneo e balcanico, ed oggi è al suo quarto album, Fenice. Ne avevo già sentito parlare come una di quelle formazioni italiche ‘storiche’ poco note al grande pubblico ma che bisognava ascoltare assolutamente. In effetti sì, bisogna ascoltarli e conoscerli. Se nemmeno voi come me li avevate mai ascoltati prima di ora, andate sul loro sito e fatevene un’idea più precisa. Per quanto mi riguarda, da quel piacevole ricordo di una ‘settantiana’ sera d’estate romana, vi faccio ascoltare Benevento, il mio brano preferito tratto dall’ultimo disco. Preferito vuoi per un legame affettivo con la città che mi ha dato i natali, vuoi perché effettivamente spacca. Nel dopo concerto uno dei quattro ragazzi, alla domanda sull’origine titolo, mi ha risposto che il brano si ispirava ad una nenia popolare beneventana. Chiederò a nonna se si ricorda.

Ve li ricordate i Frostmoon Eclipse, storico gruppo black metal spezzino? Non c’entrano nulla, musicalmente parlando. C’entrano eccome se si pensa al fatto che il chitarrista dei suddetti, Claudio Alcara, è il leader di un progetto molto interessante, gli Stroszek. Se la memoria continua a non tradirvi questo moniker vi riporterà alla mente un sacco di cose: La Ballata di Stroszek di Herzog, Control di Corbijn, gli ultimi giorni di Ian Curtis. Il progetto di Claudio, tutto chitarre e voci profonde, prende ispirazione da Johnny Cash, Mark Lanegan e Tom Waits. Sentendo l’ultimo album, Sound Graveyard Bound, più dagli ultimi due che altro sebbene si scorga anche un substrato folk, a tratti country. Il disco si può ascoltare per intero qui, fatelo. (Charles)

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