Anthronomicon e Helionomicon: evocare i Grandi Antichi con gli ULTHAR

Chi ha presente, e penso siate in parecchi, l’universo dei Miti di Cthulhu non avrà molta difficoltà a riconoscere nel nome di questa band statunitense un direttissimo richiamo ai racconti di Howard Phillips Lovecraft. Nulla di nuovo in questo senso: il gruppo francese Shub-Niggurath, dedito a un progressive rock/zeuhl di buona fattura, oltre a prendere il nome da una delle divinità più oscure del ciclo di racconti lovecraftiani, già musicava l’opprimente mondo dello scrittore americano nel – peraltro pregevolissimo – esordio del 1997, Les morts vont vite. La Cryo Chamber, etichetta che produce sostanzialmente dark ambient, da qualche anno sta pubblicando intere opere collettive completamente dedicate ai protagonisti del pantheon di Cthulhu, coinvolgendo anche gruppi di una certa notorietà come gli Atrium Carceri.
In questi ultimi anni anche il mondo del dark jazz ha voluto omaggiare il padre dell’Orrore Cosmico, in modo tutt’altro che velato. Tra le band più notevoli possiamo annoverare proprio i The Lovecraft Sextet, formazione che tra il 2021 e il 2022 ha prodotto ben due lavori che, se non proprio capo-lavori (siamo purtroppo lontani anni luce dalla classe di Bohren & der Club of Gore), sono sicuramente ben suonati, ben prodotti e godibilissimi.
Quanto al metal, le band che citano nei testi o nel moniker le creazioni del solitario di Providence ormai non si contano più. Ulthar, in questo caso, altro non è che il nome di una cittadina immaginaria ideata da Lovecraft. Epicentro di una delle sue storie più peculiari, The Cats of Ulthar (pubblicata per la prima volta nel 1920), sarà poi ricordata in altri racconti successivi, come The Other Gods (scritto nel 1921 e pubblicato solo nel 1933) e The Dream-Quest of Unknown Kadath (un altro dei suoi racconti più stravaganti, ultimato nel 1927 ma pubblicato postumo).
Se a livello di contenuti lirici e di ispirazione generale, quindi, gli Ulthar sono quindi tutt’altro che originali, in campo prettamente musicale il trio californiano rappresenta forse una delle novità più interessanti degli ultimi anni in campo black/death. La doppietta Anthronomicon–Helionomicon, dischi usciti entrambi lo scorso febbraio, arriva dopo una demo del 2016 – recentemente ripubblicata con il titolo di Nightgaunts MMXVI – e due Lp, Cosmovore (2018) e Providence (2020), che già lasciavano intravvedere le potenzialità di una formazione i cui membri non possono certo essere considerati dei novellini.
I componenti del trio hanno infatti militato in precedenza in numerose band death/black, tra cui i sottovalutatissimi Tombs (recuperate lo spettacolare Savage Gold, prodotto da Relapse nel 2014). Cosmovore attaccava dritto e scaraventava l’ascoltatore nella stessa disperazione esistenziale che prende in ostaggio il lettore dei racconti di Lovecraft: quella sensazione di pericolo costante per l’intero universo umano, un pericolo che minaccia ogni singola esistenza non in quanto singolarmente importante ma per la sua microscopica insignificanza, per la sua fondamentale irrilevanza. Per raggiungere lo scopo, gli Ulthar si avvalevano di strumentazione ribassata, di linee melodiche ridotte al minimo, di riff ossessivi, privilegiando la ritmica. Providence, pubblicato due anni dopo, riprendeva il discorso da dov’era stato interrotto, rifinendolo ulteriormente. Gli arrangiamenti sono più ricercati, la produzione più puntuale e analitica, ma non per questo la musica risulta meno aggressiva, non per questo si rinuncia a una atmosfera opprimente e devastante.
Non nascondo che aspettavo il nuovo lavoro degli Ulthar con una discreta dose di hype. Il disco d’esordio promette. Il secondo rassicura. Il terzo, alla fine, è la cartina di tornasole per vedere se le promesse sono state mantenute. Che gli Ulthar abbiano deciso di pubblicare in contemporanea due album la cui durata complessiva è di circa un’ora e venti di musica lascia supporre che fossero consci dell’importanza dell’appuntamento. Non un doppio Lp quindi, ma due opere distinte, seppur connesse tra loro. Ci vuole un certo coraggio a pubblicare in una sola volta una tale quantità di materiale. Viviamo in tempi in cui la fruizione massiva della musica liquida avviene soprattutto attraverso le piattaforme di streaming, e i bassissimi costi di queste ultime non solo incentivano l’ascoltatore a skippare le tracce passando da un disco all’altro, ma riducono anche in modo considerevole l’utenza disposta anche solo a comprare fisicamente un singolo cd (o vinile). Figurarsi due.
Troppa musica? Per un melomane come me, qualche anno fa, la domanda era quasi assurda Ma con il tempo, in teoria, si migliora. Oggi, specialmente quando si tratta di dischi metal, non sono un fan delle opere troppo prolisse, salvo le dovute eccezioni. I due dischi degli Ulthar sono troppo se vengono ascoltati interamente e in sequenza. Ma se si ascoltano i due dischi in tempi diversi, pur tenendo a mente l’intima relazione tra le due opere, l’esperienza cambia. Va da sé che ad alcuni piacerà più Anthronomicon e ad altri Helionomicon, e le ragioni sono comprensibili tanto nel primo caso (ascoltatori più in linea con la tradizione black/death americana) che nel secondo (ascoltatori che preferiscono le sperimentazioni di due lunghissime tracce di venti minuti l’una).
Il nucleo della musica dei nostri, anche nei due recenti lavori, è basato essenzialmente su riff asfittici e martellanti, attorno ai quali si evolve ogni brano. La costruzione delle linee vocali è più cangiante rispetto ai due precedenti lavori, e mescola con sapienza le parti in growl più gutturale agli scream gridati ad alte frequenze. Non senza l’ausilio, moderato, di alcuni effetti, la voce sembra più integrata nelle canzoni rispetto alle prove precedenti, il che non può che giovare alla qualità globale della musica. Il lavoro ritmico del batterista è pregevole lungo l’intera durata di entrambi i dischi, e bilancia in modo intelligente le parti in blast beat con i passaggi più lenti, che connettono le varie e distinte sezioni di chitarra.
Si potrebbe quasi dire che in certi passaggi le strutture delle canzoni siano più affini al progressive, ma gli Ulthar non si spingono né verso le sperimentazioni più avanguardisticamente ardite degli Imperial Triumphant né verso i sopraffini tecnicismi soffocanti degli Ulcerate – per citare due band che il sottoscritto considera le punte di diamante del death contemporaneo – mantenendo un approccio fondamentalmente old school. Forse è proprio questo uno degli aspetti più caratteristici di questa band: la capacità di innovare la tradizione estrema Usa, rimanendovi ancorati ma non imprigionati. Gli sparutissimi inserti di tastiera costituiscono la cornice di un suono che non accenna mai a rallentare, a farti respirare, a darti tregua alcuna.
Cephalophore apre le danze di Anthronomicon proprio su questi toni e intavola un discorso che continuerà per tutti i restanti minuti del disco. Riff distorti, alternati secondo un andamento eterogeneo, connessi da brevissime digressioni melodiche che però non alterano in alcun modo la natura battagliera e asfissiante della musica anzi, la esaltano. Lo si può ben comprendere dall’incipit del terzo brano, Saccades, spettacolare cavalcata death metal che poi si sviluppa in una cacofonia di riff maledettamente ben orchestrata dove chitarra, basso e batteria si combinano per creare l’ormai usuale atmosfera di malessere esistenziale e che concede poco, pochissimo, ad armonie più distese unicamente verso i minuti finali.
Flesh propulsion e Astranumeral Octave Chants, quarto e quinto brano, suonano nuovamente una vera e propria carica death metal di quasi dieci minuti che tira il freno, grazie a un brevissimo passaggio di tastiera, solo al fine di introdurre il brano successivo, Coagulation of Forms. Larynx Plateau è forse uno dei pezzi più belli dell’intero disco, sicuramente uno dei brani in cui le dissonanze sono più esasperate, in virtù di una scrittura musicale che si avvicina più al progressive. E riconducibile proprio al progressive è soprattutto la forma dei brani, caratterizzata da un incessante cambio di ritmiche, da un continuo dipanarsi di riff mostruosi che si alternano senza apparente soluzione di continuità, e quindi risulta assolutamente adeguata per generare disagio, fastidio, insicurezza. Sofisticata è l’architettura delle canzoni, che riescono allo stesso tempo ad essere sorprendentemente dirette. È un pregio ulteriore: troppo spesso le velleità di ricercatezza portano gli stessi artisti a strafare, al punto da non poter discernere più tra quantità e qualità. Questo agli Ulthar non succede. Mai.
Helionomicon è musicalmente simile a Anthronomicon ma concettualmente differente e molto più ambizioso. Trovano più spazio le tastiere, la velocità lascia spazio a sezioni in mid tempo ma i rallentamenti non fanno comunque alcuno sconto a un saliscendi continuo di riff dissonanti ed eclettici, che portano in più di una occasione a chiedersi come si evolverà la canzone. La stesura di Helionomicon è più influenzata da approccio progressive e il disco propone soluzioni avanguardistiche in misura maggiore. Le tastiere sono più valorizzate, pur restando in secondo piano nell’economia globale delle due tracce. Nonostante l’impegnativa durata, anche Helionomicon offre sessioni di ascolto più che goderecce. Questo a riprova di quello che disse una volta la saggia Diotima al giovine Socrate, se ben ricordo il testo greco del Simposio platonico: “Non importa quanto lo hai lungo, importa come lo usi”.
Una brevissima menzione merita la parte grafica che accompagna i dischi che, per un boomer come me (anche se anagraficamente dovrei essere considerato un millennial), è parte importantissima dell’opera d’arte musicale. Premetto che ho potuto apprezzare solo le copertine e solamente in formato digitale. Pregevoli già di per sé, le illustrazioni esprimono alla perfezione il contenuto dei dischi: caos cosmico ma metodico, cinico, una cacofonia di dettagli forse anche esageratamente razionale, ma proprio per questo ancor più in grado di generare spavento rispetto alla casualità della nuda contingenza. Scrivo con la speranza – spero ben riposta, ancora non ho ricevuto i vinili di 20 bucks spin – che l’artwork del prodotto fisico sia altrettanto avvincente.
Vorrei concludere sottolineando nuovamente che ascoltare in sequenza questi due recentissimi lavori degli Ulthar è stato veramente faticoso. Proprio per la loro natura proteiforme, necessitano del giusto tempo e della giusta attenzione per poter essere apprezzati appieno. Sarà un mio limite, ma io questa attenzione non riesco a dedicarla a questo tipo di musica per più di un’ora. Certo è che nessuno vi obbliga ad ascoltarli così, quindi il mio consiglio è: apprezzateli per gli ottimi dischi che sono, ma in tempi distinti.
Non può essere un buon “skunkista” chi non sia un bartolista.
Che sei imparentato con l’Azzeccagarbugli?
P.s. Benvenuto
P.p.s. Pesante sta roba in effetti. Mi sono cimentato un po’ tempo fa ma con scarsi risultati
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nessuna parentela XD
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Ehi Bartolo, ciao!
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ueiii
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Il bello è che coi Grandi Antochi non hanno nulla a che fare, almeno nelle loro intenzioni.
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