Sogno o son mesto: DAEVAR – Delirious Rites

In origine furono i Windhand. Sì, ok, anzi, c’erano prima gli Acid King a fare stoner doom acido (appunto) con voce femminile. Oppure, dopo, una pletora di band, tra cui i Witch Mountain, splendidi con Uta Plotkin alla voce, che però giocavano con più elementi e tonalità e con il blues. Blues che c’è anche nei Windhand, che sono arrivati un secondo dopo. Perché gli americani tendenzialmente suonano blues, consciamente o meno. Però l’idea dei Windhand era asciugare le strutture e renderle sospese, cupe ma eteree, mentre sotto le chitarre restavano pesanti, circolari, incessanti. Non li compresi mica, all’inizio, mi sembravano semplici. Poi la fortuna di vederli dal vivo sull’Octagon al Brutal Assault ha cambiato la mia prospettiva. Formula perfetta, a cui non puoi né devi togliere una virgola. Sulla scia s’erano già messi i catanesi Haunted, splendidi anche loro. A proposito, occhio che stanno registrando. Ora poi al filone si aggregano i Daevar, da Colonia, Germania.
Delirious Rites è un EP, ma corposo. Trentatré minuti. In altri tempi sarebbe stato semplicemente un album. Dall’introduzione di questo pezzo avrete capito tutto di quello che suonano i nostri. Perché ricalcano in tutto e per tutto la band di Richmond, Virginia. Ma lo fanno anche dannatamente bene. Però non nel senso di cover band. Voglio dire, ad un primo ascolto forse non li distinguereste, ma non vuol dire sia un male. Perché Delirious Rites è anche piuttosto bello. Ha le canzoni, ha il suono, ha il tiro. Una personalità maggiore verrà magari col tempo. Le band che esordiscono già 100% originali e anche già compiute sono pochissime, sono le più grandi. La stragrande maggioranza delle band alla prima uscita, specie ora che registrare e “pubblicare” costa nulla o quasi, non sono nulla di tutto ciò, né originali, né compiute. Per cui 33 minuti come questi per un esordio sono manna. Ve lo dico: appuntatevi i Daevar sul vostro taccuino, sottolineatene il nome, potrebbero regalarci presto delle belle soddisfazioni.
Alla voce, ma anche al basso, c’è Pardis Latifi, se ho capito bene di origini persiane. Lei ci mette il suo, coerentemente al modello. Anche in un contesto tutt’altro che arreso (smalto ed elsa in copertina) sospende in alto le emozioni, rarefatte, meste, sognanti. Sogni fatti di fantasmi, depressione ed immagini sfocate. Sotto, chitarre, basso e batteria viaggiano a marcia fissa: vortici lenti, fangosi, che trascinano verso il basso. Un po’ da scuola Electric Wizard, come si conviene. Per il resto, non molto altro da dire. Tanto se siete intenditori avrete capito già. Godetevi Yellow Queen, qua sotto. Se poi non avete (mai) avuto un’anima, uno spirito, non è affar mio. (Lorenzo Centini)