Un’overdose d’amore: i VOIVOD fanno il tutto esaurito a Roma

Per le solite ragioni lavorative, giungo troppo tardi per gli Hellcowboys, romani dal cuore sudista molto attivi sui palchi dell’Urbe, e arrivo in tempo per l’esibizione degli Eyeconoclast, che invece dai palchi mancavano da ben sei anni. Il Traversa, che è un loro fan da lungo tempo, li attende con trepidazione e mi spiega che sa pure i testi. Io ammetto di non essere un grande estimatore dell’ormai veterano quintetto capitolino (hanno pubblicato solo due Lp ma sono in giro dal 2003), che dal vivo, in ogni caso, sa indiscutibilmente il fatto suo. Il nuovo cantante, Enrico degli Hideous Divinity, ha il piglio e l’esperienza giusti e il gruppo si accanisce su un pubblico già folto a colpi di death/thrash moderno e dal buon coefficiente tecnico. Purtroppo il volume delle chitarre è troppo basso rispetto a quello della batteria e, nei momenti più frenetici, la resa è a volte un po’ confusionaria. Risultano più nitidi gli stacchi in mid-tempo, durante i quali è arduo non scapocciare. Ora attendiamo con fiducia il nuovo disco.
Nel frattempo, in barba al ponte (è il giorno dell’Immacolata), la sala si è riempita all’inverosimile e c’è ancora la fila fuori quando viene dichiarato il tutto esaurito. Non è la prima volta che vedo i Voivod a Roma ma era forse dall’indimenticabile concerto all’Init della (purtroppo temporanea) reunion con Blacky che non vedevo così tanta gente, soprattutto esponenti della vecchia guardia. Avvicinarsi alle prime file è fuori questione. Trovo un posto abbastanza confortevole vicino al mixer e quando i canadesi attaccano con Experiment, il pezzo di apertura di Dimension Hatross, vengo catapultato indietro nel tempo al 1995, quando acquistai quel disco nel negozio di usato cagliaritano in cui io e Piero Tola spendevamo quasi tutta la nostra paghetta, scoprendo quello che divenne subito uno dei miei gruppi preferiti. Seguono altri due classiconi assoluti. The Unknown Knows viene cantata con foga adolescenziale anche dai numerosi cinquanta-sessantenni in sala, che vissero in diretta l’uscita di quei capolavori. La sovrannaturale Tribal Convictions mi manda in orbita.
Sarà almeno la quinta volta che li vedo da quando in formazione c’è Rocky al basso e – da aficionado sfegatato ma non acritico – vi dico che quello di stasera è il loro show migliore a cui abbia assistito dal summenzionato concerto all’Init. All’inizio era stato inevitabile percepire il nuovo bassista come una sorta di corpo estraneo. Oggi l’amalgama è stupefacente, tanto da consentire di giocare con gli arrangiamenti con una naturalezza che lascia ammutoliti, quella di chi ha una perizia strumentale fuori dal comune ma non ha bisogno di farne sfoggio perché basta il solo cimentarsi con musica simile a darne testimonianza. Away è un batterista dallo stile peculiare, in grado di gestire cambi di tempo non euclidei e linguaggi sonori sulla carta inconciliabili quali il punk e il progressive. Eppure dal vivo mantiene un profilo relativamente basso, si sente prima di tutto la botta. Poi presti un orecchio più attento a quello che combina e ti si attorcigliano le sinapsi. Snake è una presenza aliena autentica. Si contorce come se fosse fatto di gomma, onorando il suo soprannome, e sfodera un catalogo di smorfie e faccette in costante espansione, come il cosmo. Ho l’impressione che sia in una forma fisica migliore rispetto al passato recente. O, più semplicemente, è preso bene come noi. A ogni pausa tra una canzone e l’altra parte il coro: VOI-VOD! VOI-VOD! Un’overdose d’amore, come diceva quello. Con tutte le sfighe che hanno avuto nel corso della loro carriera, nessuno se la merita come loro.
A differenza di altri colleghi, non avevo apprezzato particolarmente The Wake, forse l’album più classicamente progressive della carriera dei canadesi, e mi ha convinto maggiormente Synchro Anarchy, più rilassato e sperimentale. L’unico relativo calo di tensione è quindi – almeno per me – Iconspiracy, laddove i pezzi dell’ultimo disco si rivelano più trascinanti in versione live che in studio. Ottima, in particolare, Sleeves Off, il cui impatto hardcore crea il contrasto necessario per godersi una interpretazione di Astronomy Domine ancora più iperurania del solito, tra crescendo e anticlimax gestiti con l’ormai scontata maestria. Flicker Flicker Flicker Flap. Si lascia l’orbita terrestre per lo spazio interstellare.
Dopo l’obbligatoria Voivod, tutti chiediamo un bis a gran voce. Non ero preparato a Fix My Heart. Tuffo al cuore vero. Ricordo la prima volta che ho ascoltato The Outer Limits molto meglio di tante altre prime volte che in teoria segnerebbero la vita di un uomo. Inclusa la prima volta che ho sentito Reign In Blood. Le gambe mi tremano. Vicino a me un distinto signore con il gilet jeans sulla grisaglia ha le lacrime agli occhi e sbraitiamo il testo insieme facendo saltare i timpani a chi ci sta accanto. Spenti gli amplificatori, la band si intrattiene con il pubblico con la consueta giovialità. Mi allontano con un sorriso da un orecchio all’altro. Se i Voivod suonassero tutte le sere, io li vedrei tutte le sere. (Ciccio Russo)
Scaletta:
Experiment
The Unknown Knows
Tribal Convictions
Synchro Anarchy
Iconspiracy
The Prow
Holographic Thinking
Overreaction
Pre-Ignition
Sleeves Off
Astronomy Domine
Voivod
Encore:
Fix My Heart
Giusto così, meritatissimo. Capitolini brava gente. Sono band come i Voivod, o i Pain Of Salvation, che ci vedono lungo e rendono il metallo nobile e fiero. Artisti veri, che si prendono rischi, che soprendono ogni volta. Mica gli Arch Enemy, o gli Amon Amarth, mica i Behemoth. La gente vuole la merda, poi si lamenta.
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