La lista della spesa di Griffar: PRELUDE, TYRANT, FLAGRAS, GORECH

Infuria il dibattito tra i metallari, e la vexata quaestio può riassumersi nel concetto: “il metal ha ancora qualcosa di originale da dire oppure no?”. Ovviamente chiunque abbia qualcosa di sensato da dire è ben accetto e la sua opinione tenuta in gran considerazione, perché a mio parere non basta dire che i gruppi nuovi “copiano solo roba vecchia” e quindi “la loro esistenza non ha senso”, in quanto non aggiungono né tolgono niente alla storia della musica che più ci piace, né ne prolungano la gloriosa storia… anzi, la sviliscono pure. Ovviamente secondo me non è vero.

In ogni sottogenere del metal trovare originalità è sempre più raro. Pensiamo però a I, Voidhanger records, che fa uscire titoli su titoli che hanno di sicuro un certo potenziale ascendente sull’ascoltatore metal: a volte i gruppi sperimentali del suo roster sono fin troppo sperimentali, con pezzi difficili o difficilissimi da seguire, più dissonanti di una jam-session di artisti free-jazz, contorti, complicati, lucidamente folli. Originalità dunque se ne trova ancora, ma davvero è quella l’unica cosa che conta? Nei dischi dei quali parlo in queste righe di originalità non ne troverete manco l’ombra. Nessuno di questi gruppi INVENTA NIENTE, lo metto maiuscolo in modo che risalti alla prima occhiata. Però sono dei buoni dischi, anzi molto buoni, li si ascolta e riascolta volentieri, e li si consiglia pure all’amico che ti chiede se è uscito qualcosa di nuovo che sia valido e valga la pena ascoltare. Non cambieranno la storia del metal di sicuro, ma non lo faranno né in un senso (in meglio) né nell’altro (in peggio).

È uscito il terzo album dei francesi PRELUDE, gruppo della zona di Bordeaux che suona un black metal molto d’atmosfera; nei due dischi precedenti c’era un po’ più di post-black/shoegaze, laddove in questo episodio la musica è più veloce ed aggressiva, pur essendo comunque molto melodica. Dovreste provare ad immaginare i Summoning di Let Mortal Heroes Sing Your Fame suonati a tripla velocità, perché in questi sette brani che i Prelude ci offrono c’è la stessa enfasi, lo stesso cupo e caliginoso modo di scrivere musica che i Maestri austriaci hanno infuso in quel disco. Un senso di tragica disperazione pervade i solchi di Tales for the Weak, che è una specie di concept album dedicato alle storie di alcuni unsung heroes, cioè le figure che, secondo questo modo di dire inglese, hanno vissuto in modo eroico e sono morti compiendo atti di eroismo senza ricevere alcuna gloria in cambio. Forse nemmeno sono stati ringraziati. Comprenderete allora che una tematica simile non può esimere da musiche tragiche, tese, con più di una eccellente melodia, interessanti intrecci di chitarra, impatto sostenuto, appropriati inserti di flauti e tastiere per colorire le partiture e variare gli arrangiamenti. I pezzi sono tutti di buon livello, non eccessivamente lunghi – tra i 6 e gli 8 minuti al massimo – e la complessiva durata di una cinquantina di minuti si rivela piacevole e molto scorrevole. Il cantante dovrebbe curare di più le sue parti e variarle un pelo di più, ma questa oramai è una costante del black metal – e non solo. Fleeting Reality e Waiting for the End gli episodi migliori di un disco che merita un ascolto approfondito.

Hanno esordito sulla lunga distanza gli inglesi TYRANT, credo londinesi, che sin da subito si aggiudicano il premio 2022 per il moniker meno abusato. A che quota saremo di gruppi che includono la parola “tyrant” nel loro nome? In tutto il metal, eh? Tremo al solo pensiero di dovermi mettere a contarli. Ciononostante il duo inglese, incurante del fatto che il gettonatissimo nome potrebbe portare a continue confusioni, ha deciso di proseguire sulla sua strada ed ha pubblicato il primo disco Tales of Realms Forgotten di cinque brani prevalentemente di fast black metal, anche se la lenta e atmosferica Sacred Quietus, che chiude il disco con chitarre arpeggiate e tante melodie, è il pezzo più lungo e neanche tanto sorprendentemente il migliore del lotto. I primi quattro pezzi sono altrettante staffilate ben composte, con riff discreti montati in modo più che sensato, suonati con una certa perizia e benedetti da una scelta di suoni zanzarosa che perfettamente si addice per un album fast black metal che fa del suo credo l’assalto frontale all’arma bianca senza alcuna intenzione di prendere prigionieri o lasciare vivo qualche avversario. Il problema dei Tyrant, di nuovo, è la voce, monocorde, statica, sempre uguale a se stessa in uno screaming penetrante che alla lunga diventa stucchevole, sebbene mixata in secondo piano. Se aggiustassero questa caratteristica, e magari se cambiassero nome in qualcosa di meno usurato, il potenziale ci sarebbe.

Un’altra bella bordata è Lohe, album di debutto dei tedeschi FLAGRAS, episodio che segue di due anni l’interessante EP di debutto Glut, violentissimo e teso come il blackened death metal di gente come Abyssal, Impetuous Ritual o Altarage comanda. I Flagras sono più melodici, e nella loro musica la componente black metal è preponderante, a tratti ricordano qualcosa dei vecchi Lunar Aurora, proprio i primi che abbiamo ascoltato in Weltenganger, e quando rallentano e la mettono sull’atmosfera c’è persino qualche punto di contatto con i Nocte Obducta, cosa non impossibile vista l’importanza che ha avuto ed ha tuttora il gruppo black metal sperimentale loro conterraneo. Nel disco ci sono cinque brani, e anche in questo caso i migliori sono i due finali che sono i più lunghi (entrambi da dieci minuti circa) e strutturati. Nel caso dei Flagras la voce è impostata in modo migliore e non penalizza il risultato finale del prodotto, anche se non abbiamo grandi occasioni per gridare al miracolo.

Infine il debutto dei GORECH russi, dei quali vi avevo già parlato tempo fa in occasione dell’uscita del debut EP Suffer in the Cold. Ne scrissi bene pur eccependo il fatto che due soli brani erano pochini per farsi un’idea completa: qui in Antagoenist entrambi i brani vengono riproposti nella stessa versione dell’EP e vi vengono aggiunti una intro, una outro e un intermezzo piuttosto brevi, tutti incentrati su composizioni al violoncello e chitarra acustica. Di brani propriamente detti nuovi ce ne sono dunque solo tre: Call of Sorrow, Forest Energy e In My Heart, i quali confermano che i Gorech devono rendere grazie alle partiture del violoncellista (che ribadisco essere un elemento fisso nella band e non una sporadica comparsa) se l’interesse nei loro confronti cresce sensibilmente. I russi scrivono un black metal piuttosto classico, melodico quanto basta e non confusionario, con buona capacità di arrangiamenti e buone idee che li spingono ad arruolare un session per l’assolo di chitarra di Forest Energy. La voce è, di nuovo, un po’ così così, la musica è più che buona ed il violoncello gli fa guadagnare un paio di punti buoni. Non si sprecano sulla lunghezza dei loro dischi (qui siamo sulla mezz’ora o poco più) ma forse è meglio così.

Alla prossima, gente. (Griffar)

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