Avere vent’anni: SÓLSTAFIR – Í Blóði og Anda

Strana sorte ebbe Í Blóði og Anda, cioè il primo full length di coloro che oggi possiamo considerare delle post-metal rockstar ma che all’epoca faticarono a veder riconosciuto il loro talento. Trascurando uscite minori tipo partecipazioni a compilation e promo-cassette (oggi ricercatissime dai collezionisti, ma vent’anni fa episodi del tutto irrilevanti… come cambiano i tempi), l’unico altro disco disponibile di questi che all’epoca erano precursori del black metal islandese (credo persino i primi islandesi in assoluto ad avere un po’ di notorietà a livello europeo prima e mondiale in seguito) era l’EP Til Valhallar, disco di culto venduto a prezzi da cristallino strozzinaggio su Ebay e uscito sei anni prima. Al giorno d’oggi far passare sei anni tra l’EP di debutto e il primo album sulla lunga distanza sembra incredibile, pazzesco; eppure fu così, tant’è vero che la maggior parte della gente si era già dimenticata di loro… la scena black metal si stava gonfiando come un Big Babol (quei terribili chewing-gum rosa, ve li ricordate? Non credo, roba troppo vintage), usciva roba nuova in continuazione da qualunque parte del pianeta, l’Islanda oramai era troppo poco esotica. Chi se li ricordava più, i Sólstafir?

Poi uscì Í Blóði og Anda, per Ars Metalli Records per giunta, cioè un’etichetta che ha sempre fatto il passo più lungo della gamba (chiedete ai Lunar Aurora… se i tipi li incontrano per strada e non scappano più che velocemente si beccano un’ascia bipenne nella schiena, Sindar ne ha sempre una pronta all’uso con sé, sai mai cosa capita, il mondo è piccolo), poco pubblicizzato, poco promosso, pessimamente distribuito. In Italia credo ce l’abbiano avuto solo Sound Cave e Pagan Moon, a chiunque altro tu avessi chiesto (anche nei negozi più forniti tipo Rock’n Folk) la risposta sarebbe stata: “Chiiii??”. Ci siamo capiti, la solita storia: tanto non interessa a nessuno.

È un disco strano, Í Blóði og Anda. Strano perché pur essendo ancora un disco radicato nel black metal già pone solide basi per quello che i Solstafir avrebbero poi suonato in seguito, cioè quel post metal/atmospheric/lounge che è loro e solo loro, nessuno scrive musica anche lontanamente simile, però per chi ascoltava evil-nekro black metal questa musica era troppo inconsueta e particolare e, di contro, a chi non si addentrava nel black metal in quanto troppo estremo questa proposta risultava indigesta perché ancora eccessivamente violenta. Tryggvason alla voce sembra un ibrido tra l’impostazione deathcore (che, occhio, è ancora ben al di là da venire) e lo screaming di Ihsahn, almeno nella prima parte del disco. Il quale può idealmente dividersi in due parti: i primi cinque pezzi più brevi, in-your-face, veloci con fortissimi connotati black metal (non mancano arrangiamenti divaganti anche se la radice è quella, ma pensiamoci bene: chi oltre a loro ha mai usato l’effetto wah-wah nella ritmica anziché il tremolo picking per dare senso di velocità al pezzo?), anche velocissimi come la quasi-punk Tormentor (due minuti di estremismo sonoro), e i successivi quattro tutti tra i nove e i dieci minuti, molto più elaborati, che manifestano sin da ora quale sarà la direzione che i nostri vogliono intraprendere quando scriveranno nuove composizioni per i dischi futuri. Grande spazio riservato ad atmosfere liquide, neo-psichedeliche, strizzanti l’occhio a certo progressive di maniera; la voce si scioglie persino in canti epici, maestosi, armonici; i tempi rallentano, le sonorità si ammorbidiscono, a tratti si esce dal metal tentando esperimenti come nella strumentale Í Víking, 9 minuti (non ha un testo vero e proprio, solo samples).

Í Blóði og Anda, sembra curioso dirlo visto che si tratta di un disco di debutto, è un episodio transitorio, la crisalide di un gruppo che prima era una larva (epoca Til Valhallar), poi passato il tempo, compiuta la metamorfosi e quindi diventata farfalla ha intrapreso un percorso musicale di grandissimo spessore che persiste tutt’oggi e che ha del tutto escluso il black metal delle origini, a partire da Kold certamente benché già da Masterpiece of Bitterness si intuisse che in pratica la musica più estrema era stata relegata a ruolo marginale. Rivelandosi comunque scelta vincente visto che li ha portati a diventare il pilastro del post metal che sono odiernamente. Se un genere musicale non ti interessa più non devi suonarlo per forza solo perché lo hai fatto in tempi passati, corri solo il rischio di scrivere porcherie.

Inutile dirlo, il disco ebbe pochissimo successo in quanto troppo poco black metal per chi si sollazzava degli ultimi refoli di DarkThrone (Plaguewielder era uscito da poco) e troppo rumoroso per chi il black lo schifava punto. – anche con una certa quantità di preconcetti, perché no? – e comunque identificava il nome con l’odiato e disprezzabile genere devoto al male. In tanti lo hanno rivalutato in seguito ma, per le informazioni che ho io, ad oggi è il disco meno amato e meno fortunato a livello di vendite degli islandesi. Distribuito  (come sopraddetto) in modo tragico, promozionato come nemmeno l’etichetta più dilettante tra le dilettanti, la prima edizione in CD del 2002 viene considerata roba rara (c’è persino un matto messicano che vuole 450 euro, in realtà varia dai 45/50 € fino agli 80), fu poi ristampato due anni dopo dalla indie norvegese Oskorei productions in quanto introvabile, e poi dimenticato fino alla metà degli anni 10, quando oramai i Sólstafir erano diventati delle rockstar e tutti i fan della seconda ondata hanno sentito necessario procurarsi anche i loro dischi vecchi. Da lì in poi Season of Mist lo ha ristampato in CD e vinile di ogni colore possibile ed immaginabile e si trova senza problemi. (Griffar)

7 commenti

  • Rock’n’folk, Pagan Moon e Soundcave… Tre negozi che hanno fatto la storia, manca solo il maryposa forse pochi altri. Magari ci si è anche incrociati da qualche parte, mai fatto un salto al Babylonia a Biella? Comunque bei ricordi, bella recensione \m/

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    • Al Babylonia a momenti ci prendevo la residenza, ero lì a tutti i concerti dal power metal in su. Aldo è ancora un amico, oggi ha una tramezzineria/cocktail bar ultra-seria a Biella vicino alla partenza della funicolare.
      A Marko… Il Kokokinaka non esiste più da molti anni, era in via Tepice (dietro l’ospedale Molinette) e di Massimo, il titolare, ho perso le tracce da quando.ha chiuso, con mio disappunto. Mi fa piacere che lo nomini, quel negozio aveva una storia dietro: era nato come “CD club”, un circolo ad associazione per gli amanti del compact disc, che quando nacque il sito aveva ancora poca diffusione. Pagavi mi sembra 15000 lire al mese (il prezzo medio di un cd, all’epoca) e potevi ascoltarti in una delle 8 postazioni CD qualsiasi disco fosse presente in negozio. Se poi un cd ti piaceva particolarmente Massimo te lo procurava. Solo dopo diventò negozio a tutti gli effetti. Crollò grazie al fatto che con i lavori della Metro la via diventò praticamente irraggiungibile.
      Pagan Moon esiste dal 1993, non proprio un second-comer, è praticamente contemporaneo a Sound Cave, siamo lì. Se ci guardiamo bene sono entrambi successivi a Nosferatu records, a ‘sto punto.

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      • Aahahah Beh io sono proprio di Biella, quindi hai voglia, anche nel mio caso è stato una seconda casa praticamente, ci ho visto una serie interminabile di concerti ed è stato un periodo veramente fantastico dove potevi anche andare al pomeriggio ed incontrare i musicisti. Mi ricordo in particolare dei My Dying Bride, degli Hellacopters, Dei Therion (la loro cantante a piedi nudi che esce dal tourbus fu un’ immagine che mi ha segnato), dei Neurosis, dei Queens of the stone age… per tacere di altri concerti strepitosi. Aldo portò vermente qualcosa di unico in una città che diversamente sarebbe stata un vero mortorio, putroppo ultimamente ha avuto delle vicissitudini non proprio edificanti.
        Pagan Moon esiste ancora? Non lo avrei mai detto ma ne sono felice (è ancora in via San Massimo?) anche se il gestore anche a me ha sempre inquietato un po’. Di Sondcave mi piaceva che tutte le volte che aprivi la porta venivi inondato da una ventata death/black a volumi improponibili e covevi praticamente urlare in faccia ai commessi ahahah.

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  • Il Babylonia era il locale più vicino a me quando abitavo in Italia…facevano dei concerti da paura, me ne ricordo 3 impressionanti: Neurosis, Voivod dell’era “Phobos” con un Piggy spettacolare, Motorpsycho dell’era “Angel and Demons at play”.
    Il Rock’n’folk mi ricordo che era una istituzione a Torino, in una via bellissima del centro, aveva un sacco di cose interessanti di dark rock ecc ma all’epoca ero troppo metallaro per accorgermene. Al Soundcave ci sono entrato un paio di volte, non mi piaceva molto l’atmosfera ma ricordo di avere comprato un po’ di cose, ho ancora in giro un catalogo cartaceo con in copertina Dead e il suo candelabro. PaganMoon invece mi pare fosse arrivato dopo sull’onda della moda black, era in centro pure lui a torino tipo corso re umberto, ci sono entrato una sola volta, c’era dentro una specie di trono nero e onestamente mi ha fatto ridere, si respirava una aria di forte disagio umano. A Torino molto meglio erano due negozi dell’usato: la “Bancarella del Gorilla” sotto i portici di Porta Susa e un altro dal nome assurdo tipo “Kokokinaku” che era gestito da un tizio pelato in centro, vicino a via Ormea. Chissà se se è rimasto almeno uno di tutti questi posti…che nostalgia della gioventù andata….

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  • Ragazzi, ma qualcuno si ricorda quel negozietto dietro il duomo a Milano? Anni 80…..

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  • A me piaceva.
    L’unica cosa veramente spiazzante era la voce. Ricordo una recensione in cui si spiegava che il cantante urlava “non nel senso che canta in screaming, urla come se si rivolgesse ad un pubblico di sordi”.
    E boh, avendolo apprezzato provai in seguito ad ascoltare quelli dopo ma, eccettuato Otta, quel loro nuovo corso non mi ha mai preso.

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