Grazie per tutto il fresco: SPECIALINO AMBIENT BLACK METAL

Come ogni anno, anche quest’anno ho accumulato una sfilza di refrigeranti ascolti che orbitano intorno al cosiddetto ambient/atmospheric black metal e, datosi che purtroppo la stagione preferita dai blacksters è finita da un pezzo, ha smesso di piovere, fuori fa caldo, le signorine vanno in giro sempre meno vestite, la gente gioca a pallone nei parchi e tutti sono più allegri, direi che con alcuni di essi vale la pena di farci uno specialino, perché, vorrei ricordare, il sole fa venire le dermatiti, scopare non è trve, lo sport conduce alla pazzia e non c’è nessun motivo valido per essere felici in questa grama vita. Sarete d’accordo con me, spero.
BATTLE DAGORATH – Abyss Horizons
Impossibile non riandare con la mente alla meravigliosa Dagor Bragollach dei superni Summoning (uno dei motivi per i quali, lo ricordiamo, vale la pena alzarsi dal letto tutte le mattine) e non per una mera assonanza. La Dagor Dagorath, come l’altra citata, è una battaglia, anzi LA battaglia, quella definitiva profetizzata nel Silmarillion, la guerra di tutte le guerre che porrà fine al mondo. Con un tale riferimento apocalittico non si può che essere quantomeno incuriositi dal duo americano/tedesco. All’attivo di ben sei album, i Battle Dagorath sono il più atipico tra i gruppi di cui si parlerà qui. Meno facilmente classificabili e per questo ancor più interessanti, li avevo lasciati all’esordio Eternal Throne del 2008 e li ritrovo oggi decisamente evoluti e personali. Il loro riferimento immaginario è connesso, oltre che al lato oscuro dell’universo tolkieniano, alle profondità abissali dello spazio insondabile e la musica che ne rigettano fuori è costantemente ammantata da una coltre di opprimente pesantezza, frutto di una gestazione la cui temperatura interna si avvicina ai -270° del vuoto cosmico. Le atmosfere ambient create dalle tastiere svolgono il compito di contestualizzare il tutto, inframezzandosi alle lunghe e furibonde suite.
PAYSAGE D’HIVER – Im Wald
Una delle particolarità maggiormente ricorrenti di tale sottogenere è l’essere frutto del lavoro di un solitario. Il signor Tobias Möckl dalla Svizzera, aka Wintherr nel qui presente progetto Paysage d’Hiver, aka Wroth negli ottimi Darkspace, possiede l’indubbia dote di riuscire a proiettare l’ascoltatore ben predisposto in un altrove inquietante e inospitale. La ripetitività e l’andamento quasi spiroidale dei riff ha un che di narcotizzante. Due ore due, signori e signore, di presa a malissimo e voglia di stare immobili sotto la neve finché il corpo non va in ipotermia prima di lanciarsi contro una stalagmite di ghiaccio appuntita per farla finita. Una vera botta di vita, un disco decisamente bello, dove la definizione di “bello” assume tutta una serie di sfaccettature rendendo decisamente fuori luogo la scelta di questa parola. Il signor Möckl è sulle scene da 23 anni ma questo è il suo primo full; fino ad oggi, infatti, aveva partorito solo demo e cassettine e quasi tutti ne avevamo sentito parlare una volta nella vita o avevamo ascoltato qualcosa di sparso qui e là. Adesso possiamo finalmente dedicarci con tutti noi stessi a quest’opera burzumiana, cacciata fuori direttamente dai più remoti recessi del black metal anni ’90.
ELFFOR – Unholy Throne of Doom
In questa gara a chi fa il disco più ostico, veniamo ora a qualcosa di leggermente più godibile nell’immediato. Avendolo scoperto abbastanza tardi, quando aveva già superato, cioè, la primissima fase ambient medievale, l’ho sempre considerato il migliore epigono dei Summoning sulla piazza. Questo fino al palesarsi dei mai troppo lodati Caladan Brood, autori di un disco che non sfigura nemmeno di fronte agli originali (ma per il Sacro Cuore di Gesù Agonizzante, perché non ne fate un altro?). Nel corso degli anni, il signor Eöl, il basco che cela la sua vera identità dietro a questo nomignolo, ha alternato fasi di maggiore o minore aderenza al riferimento primo (le opere di Silenius e Protector), ma non chiedetemi in quale album nello specifico perché stiamo parlando di una produzione vastissima (Unholy Throne of Doom dovrebbe essere il sedicesimo). Non mi perdo mai il nuovo disco del signor Eöl e mi riprometto sempre di parlarne, il problema è che non c’è molto da dire su questo “gruppo” se non che lo trovo sempre piacevole, non abbastanza, però, da indurmi a fare un tatuaggio sulla chiappa con scritto Elffor. L’ultimo della lunga serie si va palesemente a collocare nella seconda delle suddette due fasi, quella, cioè, di maggiore distanza dal canone Summoning, quindi meno ambient e più black metal tradizionale, meno strumentale e più cantata. Onore a te, signor Eöl, e alla tua perseveranza.
MIDNIGHT ODYSSEY – Ruins of a Celestial Fire
Al contrario, il signor Tony Parker da Brisbane lo seguo dai primi esordi e sono anche riuscito a parlarne una volta. Ma quella volta dovetti divagare parecchio perché, come per le opere del signor Eöl, anche su quelle del signor Parker non vi è grande possibilità di scrivervi un trattato. Ciononostante, ci si proverà ancora nell’impresa, perché questo caldo è davvero insopportabile e se non ci si aiuta tra di noi dove andremo a finire. Il signor Parker mi aveva abituato a dischi della durata non inferiore alle due ore e io, alla fine, sono uno abbastanza abitudinario, sicché quando l’anno scorso mi tira fuori un disco della durata di un’ora soltanto ci resto così male che decido di non parlarne. Ok, non è proprio andata così ma, come avrete intuito mi sto arrampicando sugli specchi per superare le 200 parole e passare oltre. Ora che ci penso meglio, il precedente Biolume Part 1 – In Tartarean Chains non mi aveva impressionato particolarmente, a differenza di quel mattone venuto dallo spazio siderale a nome Shards of Silver Fade. Il qui presente Ruins of a Celestial Fire, invece, merita la nostra attenzione perché coraggiosamente punta tutto sulla pura ambient, quindi zero black metal, 100% atmosfere e 100% strumentale, tanto è vero che su Metal Archives è riportata la seguente nota: inspired by 70’s Kosmische music and pulp science fiction, ed è proprio vero, amici. Aggiungo pure che se ci butti dentro un beat elementare è subito Kraftwerk.
LUSTRE – The Ashes of Light
Veniamo a chiudere questa faticosa carrellata col giovane signor Henrik Sunding dalla freschissima Östersund e i suoi Lustre. Di tutto il qui presente lotto, The Ashes of Light è sicuramente il mio preferito, quindi è boccone del re. A farla da padrone è il solito tappeto di tastiere lo-fi e urla provenienti da un vortice spazio-temporale. Chi segue e conosce gli album del signor Sunding avrà familiarità coi concetti di musica evocativa, melodiosa, onirica, ripetitiva, notturna, emozionale, minimale, ipnotica, malinconica, immaginifica, eterea, suggestiva ed altre mille sinonimi tipo quelli che ho buttato qui come la punteggiatura nella nota lettera di Totò e Peppino. Parere personale spiccio che va al di là di ogni frase fatta o pensiero pseudo filosofico ispirato da cotanta bellezza in note, dunque, è che se si è nella giusta disposizione d’animo e si è alla ricerca di qualcosa che faccia addormentare facendo dei bei sogni, oppure una musica che aiuti la concentrazione, oppure se semplicemente si ha voglia di volare nell’aere dopo un ricco cannone, il cosiddetto dungeon synth dei Lustre non vi deluderà. Che altro dire se non: lode a te, signor Sunding, e grazie per tutto il fresco. (Charles)
Odio il caldo e detesto l’estate, nonostante non viva esattamente in una regione del nord, quindi….va bene l’etermo inverno della mente, se non si può avere quello fisico
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