BURZUM – Thulêan Mysteries

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È qualche giorno che è uscito Thulêan Mysteries, disco che aspettavo da qualche mese in seguito all’annuncio di colui che si faceva chiamare Count Grishnackh, il quale lo presentava come l’ideale colonna sonora del gioco di ruolo, o GDR se vogliamo fare i concisi, MYFAROG, sempre a firma Varg Vikernes. Il gioco di per sé non è una novità: se seguite, o seguivate, in maniera spasmodica i canali social di Varg sicuramente ne avete sentito parlare, magari ridendo un po’ sulla cosa, o magari seguendola con interesse. Diciamo che, essendo questa forma di intrattenimento nelle mie corde, come accade anche per molti di voi suppongo, mi sono incuriosito al punto da procurarmi il libro della terza edizione del gioco tanto per vedere un po’ di che si trattava, se di una cosa buona solo per tirarci due discorsi da bar o se veramente ci fosse qualcosa che meritasse di essere approfondito. Infine ero anche curioso di scoprire che relazione avesse il gioco con il tanto chiacchierato Varg, l’ultimo disco e il progetto Burzum in generale.

In generale il GDR è solitamente identificato come un passatempo sfigato, o quantomeno di difficile comprensione e che richiede uno sforzo mentale eccessivo. Provo a liquidarvelo in poche parole se non avete dimestichezza: si basa tendenzialmente su uno o più libri (in genere sulle 200 pagine, il che butta a favore del “ma chi me lo fa fare”) che contengono sia le indicazioni generali che delineano un mondo fantastico ideato dall’autore, sia le regole del gioco, basate principalmente su formule statistiche che cercano di dare coerenza alle azioni dei giocatori e che pongono i limiti entro cui muoversi e interpretare i personaggi. Tutto questo è generalmente retto da un unico giocatore, master nel gergo comune, che dispone difficoltà, inventa sottotrame e tranelli per i giocatori che comunque scelgono una linea di condotta e potenzialmente possono far compiere ai loro personaggi tutto ciò che desiderano, consci che ad ogni azione corrisponderà una reazione. Alla fine del gioco quello che si ottiene è una storia e la soddisfazione di avervi contribuito. E basta. L’obiettivo in sostanza è quello di vivere una fantasia di gruppo.

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MYFAROG in questo senso non ha niente di diverso da un GDR degli anni Novanta: grafica scarna, un sacco di tabelle (forse anche troppe) e una vaga descrizione del mondo immaginario in oggetto, che questa volta è quello di Varg: un antico mondo europeo, pagano, in cui l’umanità paga lo scotto della sua superbia e del suo allontanamento dalla natura e dalla magia antica. È un mondo palesemente ispirato alla Terra di Mezzo tolkieniana, come tutti o quasi quelli che si occupano di elfi, nani e stregoni ovviamente, in cui le antiche e fiere città sono ridotte a sepolcri inaccessibili, terreno pericoloso e malvagio in cui nessun uomo potrebbe sopravvivere. Anche l’antica razza degli elfi, detentrice della magia arcaica e della memoria ancestrale, è diffidente e rigetta qualunque individuo non appartenente alla loro razza. Gli umani si trovano sostanzialmente soli, in un territorio ostile, assieme a nuove razze emergenti e regrediti a società di raccoglitori/cacciatori per poter sopravvivere ad intemperie, difficoltà e carestie. In pratica lo stesso senso di perdita, tristezza e isolamento che permea ogni singolo disco a nome Burzum.

Inutile continuare a tediarvi ulteriormente parlando del gioco, ma mi serviva per esprimere la mia tesi riguardo a questo disco: il nuovo Thulêan Mysteries non è né un vero e proprio nuovo album né una cosa a sé, ma è l’espressione di un elemento del processo creativo già in atto sin dal primo disco, Burzum giustappunto, processo rimasto sempre sullo sfondo, mai esplicitato e fondamentalmente sempre presente. Questo elemento è la fantasticheria, la generazione di un mondo immaginario che è in realtà la vera sorgente creativa della musica di Varg Vikernes, la quale quindi non verrebbe direttamente da una creatività che potremmo definire di primo livello o diretta, ma scaturisce come collaterale di un altro processo creativo, a cui inizialmente nessuno era parte.

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È praticamente la stessa cosa che succede ai Summoning, che però si ispirano a un autore ben definito e che quindi mettono in pratica solo il secondo passaggio, mentre Burzum in qualche modo si appella alla sua propria fantasticheria che, non essendo lui Tolkien, non è ancora mai stata pienamente espressa, per quanto ci sia un piccolo passo avanti con MYFAROG.

Ora, il fatto che il gioco di ruolo sia parte integrante delle composizioni di Burzum è un po’ che mi frulla per la testa, da quando stavo pensando a qualcosa da scrivere sul ventennale di Hildskjalf, ragionamento che poi ho accantonato, ma che mi pareva potesse esser valido anche per cose precedenti come per esempio Dungeon of Darkness, pezzo interamente elettronico contenuto nel primo LP. Con Thulêan Mysteries è lui in persona a dirlo, spingendo il fantastico fino all’estremo, imbevendolo di spiritualità e leggende nordeuropee, piazzando la stessa identica copertina del gioco sul disco, scrivendoci sopra Burzum e uscendosene con la seguente dichiarazione:

“Thulêan Mysteries è stato creato passivamente, nel senso che io non avevo intenzione di scrivere un nuovo album; ho semplicemente scritto qualcosa qui e lì e, a un certo punto, ho capito che avevo abbastanza materiale per riempire un disco. Quando mi è stato chiesto di farlo mi sono detto: perché no? Era una buona idea. La musica è eterogenea, trascende ogni genere e, forse, appartiene a molti generi diversi. L’intenzione è sempre stata di creare una certa atmosfera, spesso legata a un’idea o una situazione. Dato che la mia vera passione non è mai stata la musica ma, piuttosto, i giochi di ruolo da tavola, ho pensato che avrei dovuto fare un disco inteso a questo scopo; e nello specifico una colonna sonora per il mio MYFAROG (Mythic Fantasy Role-playing Game). Spero di riuscire a trasmettere un senso di Thulê durante l’ascolto, come sempre è con Burzum, specie se lo ascoltate da soli. Spero che vi piaccia questa colonna sonora per Thulê, Madre Natura e la vita stessa”.

Quindi questa musica è stata creata a priori, come una specie di flusso di pensiero solo successivamente concepito come sottofondo per il suo gioco. L’obiettivo finale è di condividere la visione di questo mondo fantastico, su cui avrà peraltro investito tantissimo, conoscendo il personaggio. La mia interpretazione è che in questo modo si chiude un cerchio in cui viene cercata un’interazione con qualcuno, ma, piuttosto che farlo in maniera diretta, mettendo cioè l’interlocutore dentro al primo processo creativo, gli si dice: ecco, questi sono gli strumenti che ti do, prendi pure parte al processo, se ti interessa, io uso questi strumenti per giocare e insegnare cose ai miei figli (parole sue) tu fanne quel che vuoi, traine pure ispirazione.

In effetti il disco è un sottofondo e va bene praticamente per qualunque cosa che richieda concentrazione. Alcuni di noi lo hanno usato anche durante il lavoro, pare con risultati egregi. È una sorta di mantra, come è uso per Burzum, che prepara sempre all’ascolto mediante una struttura rituale in cui c’è una fase di preparazione, una fase centrale e una conclusione come di risveglio dal sogno. Il disco, affascinante in molte parti, non mostra nessuna tecnica, nessuna presunzione di virtuosismo, solo una triste ed evocativa musica che proviene dal profondo della fantasia di Varg. Alcuni brani sono brevissimi, un minuto e mezzo, probabilmente perché pensati per essere mandati in loop, all’infinito o fino a che ne avete bisogno per poter creare la vostra di fantasticheria, ciò che si svolge innanzi agli occhi di altri che come voi stanno condividendo il sogno, o l’incubo che si sta realizzando. Nonostante il minutaggio eccessivo, riesce anche nell’arduo compito di farsi ascoltare da cima a fondo, almeno da me, in stato di semi-trance, in questi giorni strani di quarantena. Ad un tratto il sogno finisce e tutto torna come prima.

Probabilmente nessuno voleva ammettere una cosa del genere, e invece potrebbe essere un’ulteriore chiave di volta, quella che permetterebbe di fare entrare nel quadro produzioni “strane”, qual è Hliðskjálf, ma anche The Ways of Yore o lavori attinenti, accostandoli agli episodi più propriamente black metal che, una volta di più, paiono essere solo una mera fase incidentale del percorso a nome Burzum. (Maurizio Diaz)

 

4 commenti

  • Non vi arrabbiate oltre misura… “qual è” senza apostrofo.
    Sulla recensione non apro bocca, non ascoltando il soggetto in questione.

    Piace a 1 persona

  • A me ormai non frega più niente di etichette e posizionamenti, se un disco mi prende bene me lo procuro e questo è da tenere a portata di device.

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  • Bof.Completamente d’accordo, con rosicata a metà. Perchè se si impegnava a dare una forma coerente a questi che sembrano più appunti ne veniva fuori secondo me un discone. I pezzi un pò più strutturati lasciano intravedere nuovi modi di affrontare “l’ambient alla burzum” che avrei tanto preferito vedere concentrati in 8-10 tracce con un senso ed una direzione. Alla fine, amen, la musica è la sua, ci faccia un pò quello che vuole. Toccherà farsi una versione personale del disco con i momenti più ispirati.

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