Avere vent’anni: CHEMICAL BROTHERS – Surrender

Il suono degli ultimi passi di un mondo in cui le persone dovevano uscire per strada e andare in giro per vedere quello che succedeva: nel giro di pochissimo un modem a 56k ci avrebbe portato l’universo dentro casa e avrebbe finito per seppellirci lì dentro. Prima che la vita scorresse sullo schermo di un telefonino c’erano sabati sera fatti di insoddisfazione perenne all’inseguimento di qualcosa senza nome. Birre, cannetta, festa, gira la testa, locale, musica a palla, pasticca, abbracciare gente a caso, bocca secca, aria fresca, tangenziale, il divano di qualcuno appena in tempo per qualche gran premio e poi tutti a nanna.

Surrender va al ritmo videoclipparo con cui quegli anni si autorappresentavano, uno zapping frenetico che era la velocità alla quale sembrava tutto dovesse viaggiare per avere significato. Forse basterebbe questo per metterlo nella lista degli album più realmente rappresentativi del decennio, lì insieme a Nevermind e The Downward Spiral (e tanti altri in realtà) a testimonianza di quello che era il mondo in quegli anni lì. Ma non è solo il segno di un’epoca (anche le Spice Girls lo erano): si dà il caso che fosse anche una meraviglia. Uno sforzo creativo complesso e cervellotico al servizio di uno dei più basilari istinti dell’essere umano: ballare.

È la sua dualità, il suo essere sia istintuale che cerebrale a renderlo stupefacente. Capolavoro da dancefloor e da divano, unico requisito è un volume bello alto con bassi a cannone. Per quanto mi riguarda anche tra i migliori dischi mai concepiti per farsi le canne. Musica e fumo, una miscela perfetta di cui questi cinquanta minuti possono essere utilizzati come prova incontrovertibile. Un labirinto impossibile che nasconde sorprese dietro ogni angolo, uno scenario in costante alterazione che per l’ascoltatore diviene desiderio di essere costantemente stupito e trova sempre risposta affermativa. Di album fichi i Chemical Brothers ne avevano già fatti un paio (Dig Your Own Hole è una bomba), ma erano comunque dischi più legati alla dance music in senso stretto. Non erano certo cose tipo dj Molella o i remix del Festivalbar, ma i capitoli precedenti mancavano di quella coesione complessiva propria che piace molto a noi che siamo cresciuti con una certa idea di che forma debba avere un disco per potersi definire tale.

Surrender ha una struttura da album rock classico, ed è questo che lo rende il viaggione definitivo. Alza la tensione, la raddoppia, la rilascia, vira sulla psichedelia più totale e ti fa addormentare. Se proprio dovessi andare a trovare dei riferimenti esterni li troverei non all’interno del loro genere (che peraltro conosco poco) quanto piuttosto in una serie di mega-classiconi dei primissimi anni Settanta. È un disco del 1999, ma ha l’andamento complessivo di Led Zeppelin IV, alcune sequenze di pezzi fanno talmente a gara alzare il livello che pare Sabbath Bloody Sabbath e ci si sentono le droghe dentro manco fosse un album dei Doors. Ma con il suono degli anni’90.

Surrender è una cartolina estiva di fine millennio dal lato occidentale del pianeta Terra, e il suo messaggio è semplicissimo (“Ciao a tutti, qui ci stiamo divertendo un sacco”) ma riesce comunque a comunicare la bellezza del momento a chi sta leggendo dall’altra parte. E tanti cari saluti. (Stefano Greco)

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