AYREON – The Theory of Everything (InsideOut)
Capisco che il concetto di metal opera possa risultare antipatico e che venga considerato sinonimo di indigeribile boria sonora. Capisco pure che, come approccio alla composizione di un determinato tipo di prodotto musicale, possa essere giudicato oramai datato. L’impresa di fare e suonare dischi inquadrabili come metal opera porta con sé il pregio-difetto, o il rischio se volete, di partire appesantita da un carico di ricordi e di circostanze che inevitabilmente riporta la mente indietro di almeno quindici anni. Perché fu soprattutto nell’ultima decade precedente il nuovo millennio che assistemmo a grandi manifestazioni di volontà e coraggio, di sperimentazione ed anche esasperazione di generi e stili. E fu sempre in quegli anni che vedemmo l’esplodere di grandi e magniloquenti suite, concept complicatissimi e lavori gonfi di una prosopopea smisurata come non s’era mai vista prima (almeno in ambito metal). Il rock progressivo, da par suo, ha da sempre abituato i suoi più fedeli seguaci a lunghe ed estenuanti prove di resistenza e di concentrazione. Prove di endurance che incuriosivano gli intelletti, solleticando proprio quelle quote più intimamente superbe in tutti coloro che ardivano a misurarsi con l’artista. Spesso ne palesavano i limiti, sia in termini di capacità di penetrazione che di pazienza. Il vero musicista prog è quello capace di incantarti con le sue abilità ma allo stesso tempo è anche quello che ti fa sentire umile e inadeguato. Calando il discorso su un ambito del tutto sui generis, quello della musica dura, si crea un inevitabile cortocircuito: il metal, che nasce come qualcosa che va assimilato velocemente, con rabbia, potenza e prepotenza, qualcosa che brucia e che si consuma in fretta, si scontra con l’irragionevole ragione del movimento progressive, con l’astrazione e spesso con la meditazione. Ne viene fuori un qualcosa che può destare interesse solo in chi ha dentro almeno un pizzico di quella curiosità (o appunto, superbia) che lo spinge a mettersi al pari dell’artista, al suo stesso livello. O almeno a provarci.
Ogni singolo disco degli Ayreon è una patente manifestazione di intelligenza e bravura allo stato puro. Sarà anche antipatico dirlo, ma è così. Per quanto abbiamo ammesso sia una definizione desueta e fuori moda, quest’ultima metal opera degli olandesi è l’ennesima prova di forza e di abilità. Siamo di fronte al solito disco impossibile da criticare e Arjen Anthony Lucassen è un maledetto genio. Non fosse altro che per questa sua capacità di portarti a fare inevitabili e strane elucubrazioni come quella che avete appena letto. The Theory of Everything è il capolavoro assoluto che siamo abituati a ricevere da questo signore: un piacevole racconto di fantasia, un concept studiato nei dettagli, un sistema di collaborazioni esterne ormai rodato (è sempre impressionante constatare quanto sia grande il tributo che viene puntualmente versato a Lucassen dai suoi colleghi: John Wetton, Emerson e Wakeman a mo’ di esempio), un succedersi di citazioni e variazioni di stile organizzato con una coerenza logica inattaccabile. Eppure, come sempre accade, superando il più che difficoltoso attrito di primo distacco, ascolteremo questa ennesima lunga opera a ripetizione, ci investiremo tempo ed energie, ma prima o poi saremo costretti a metterla da parte, prendere un po’ di fiato, dirsi ci tornerò su e farsi prendere da altre cose più immediate, più facili e divertenti. Finiremo quasi col dimenticarla del tutto. Perché è così: ci saremo misurati con l’artista e ne saremo usciti, ancora una volta, sconfitti. (Charles)
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