HOUR OF PENANCE – Sedition (Prosthetic Records)
Quando c’è una qualche problema che preferisco approfondire prima di affrontarlo di petto, non importa se riguardante l’esistenza o altro –sono sincero- piglio e contatto un mio amico. Con lui gli do dentro veramente tanto, roba che a fine telefonata mi sento svuotato e il mio retroterra provinciale si fa sentire sempre più e preme per farmi rimangiare ogni singola cosa spuntata dalla mie labbra. Ma ora finalmente credo di aver capito tale dinamica da senso di colpa.
Il mio amico è uno di quelli che a fronte di mille e mille avventure e cambiamenti ancora riesce a mantenere un apparente incanto, e riesce benissimo a far perdurare nell’esistenza più in generale uno sbalorditivo ardore di vita (sotto la ferma maschera dell’autocontrollo) che temo io non avrò mai. Io, un po’ censore, lui, apparentemente più beatnik. Il punto, avrete capito, è: vuoi darti alla pazza gioia? Bene, fallo. Che bisogno c’è di trasformare il tutto in una cornice di follia e romanticismo languido solo per giustificarti (da cui le lunghe discussioni)? È esattamente lì che le nostre strade si dividono.
Come intro non c’è male, diciamo. Credo che se sarete riusciti ad intercettare per bene le mie intenzioni capirete che, trasposto nel mondo del metal, questo altro non è che il mio personalissimo teorema dei Misery Index. Roberto, o chi per lui, inventò il teorema degli Ulver, io quello dei Misery Index. In poche parole fa così: non importa quanti dischi farai (uno spera sempre meno sennò la deriva Ac/Dc può far seriamente male), perché se suoni qualcosa a cavallo tra death, grind e brutal sarà difficile mantenere inalterati gli stessi standard associandoli a genuine innovazioni. Piuttosto, ogni disco che inciderai sarà sempre più tosto e violento del precedente e se possibile sfonderà la barriera del suono che hai costruito ma normalizzato con le precedenti esperienze discografiche. Per questo motivo, o uno si compra tutti i dischi dei Misery Index fingendo che prova dopo prova le innovazioni si sentano (anche se in tal senso Heirs to Thievery è davvero un gran disco) o si ferma, risparmia un po’ di soldini e si compra Retaliate o, al massimo, la raccolta di split. Che tanto parte tutto da lì, da quel devastante Retaliate che ci fece saltare un po’ tutti in aria.
Con i romani Hour of Penance siamo più o meno sulla stessa strada. In poco più di dieci anni ben cinque dischi, uno più tosto dell’altro. Mi spiace solo che la sorte toccata ai più giovani cuginetti (?) Fleshgod Apocalypse sia stata in effetti più benevola che con i romani con la scorza d’acciaio. Insomma, un bel contrattino con Nuclear Blast avrebbe potuto far gola anche a loro ma quando le cose girano in un più modesto verso purtroppo non c’è storia. Ma va bene così, dopotutto. Perseveranza (che nel death metal è un po’ la parola d’ordine, capisciammè), palle quadre e assalto frontale duro e inquadrato.
È proprio questo che mi colpisce del nuovo disco, infatti. Benché la violenza degli esordi non si sia stemperata poi tanto nella melodia (che si limita a spuntare qua e là nei momenti giusti e con le giuste aperture chitarristiche), sembra che la corsa insensata verso la fine e il desiderio di vertigine procuri un grande e piacevole capogiro all’ascoltatore. Insomma, dico sul serio, la band non cede veramente mai. Anche la definizione più classica di brutal death non ci sta più di tanto, considerando che ormai lo stile personale della band sembra superare anche il reiterato ricorso alla definizione di nuova scuola del death metal. Una cosa è certa: è fuor di dubbio che certa “disumanità” strumentale sia del tutto funzionale alla resa spietata del sound, ma questo è un po’ il sesso degli angeli. Piuttosto io mi concentrerei più sulle caratteristiche intrinseche del disco e tralascerei la questione della produzione e della pulizia del suono.
Ecco, per ritornare al teorema dei Misery Index e ancor prima alla mia personale vicenda di cui all’intro, vorrei proprio che si considerasse l’aspetto più sinceramente musicale-estetico della band perché una sterile discussione sulle ‘nuove barriere del death metal’ finisce per scontrarsi con la dura realtà di gente che anno dopo anno entra in studio e fa del sound del disco precedente un punto di riferimento dal quale muovere avanti il più possibile. La band preferisce tuffare la faccia e le mani nell’abisso più diabolico del death metal giocando con la dovuta furbizia a rendere sempre più al passo coi tempi la propria formula, il tutto senza che la loro storica personalità vada a farsi benedire.
Agli Hour of Penance faccio i miei più sentiti complimenti e auguro ai loro fan e a tutti coloro che il brutal lo masticano ben più di me (non che ci voglia poi tanto) di lasciar perdere la questione della violenza e della reiterazione degli stilemi del genere stesso e di provare ad apprezzare la sostanza più intima e personale della band. Ormai non ha manco più senso schierare in campo Europa e Florida, tanto per dire. Di voi mi ricordo quando ancora su Metal Shock si elogiavano i vostri demo. Ne è passata di acqua sotto i ponti ma voi siete ancora qui.
è una triste verità, ma i moralistoni ed i cattolici trombano come i matti dalla mattina alla sera, altro che noialtri che facciamo i libertari. se volete tentare di replicare maialate viste in pornazzi la cui presa visione vi vergognate di confessare anche all’amico più stretto, di corsa alla GMG, non al Blackout.
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discone! bello bello bello
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Mai udite parole più giuste di queste, gli Hour of Penance difatti di disco in disco suonano sempre più veloce, non ringrazierò mai abbastanza Fabio Bava per avermeli fatti scoprire grazie alla recensione dell’allora appena uscito ‘The vile conception’. Il teorema dei misery index è universale comunque, un po’ come quello degli Ulver e quello degli Unleashed.
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