La finestra sul porcile: BEAU HA PAURA

Due tipi di spettatore mettono ancora oggi piede in un cinema. I primi vanno alla ricerca dell’intrattenimento e rappresentano la quasi totalità: a loro è rivolto ogni minuto fra i trenta che precedono la visione, dai trailer agli invadenti intermezzi Disney, Pixar, Marvel o come preferite chiamarli, tanto è la stessa cosa. Guarda a loro pure Chris Pratt, in giubbotto di pelle, che fa le marchette con Zoe Saldana affinché il franchise di Guardiani della galassia non vada a puttane. La ripetizione per ben tre volte del trailer del prossimo Indiana Jones con lui svecchiato alla disperata, come fossimo in Irishman, anche. L’unico stacco pubblicitario che ha saputo destare la mia narcotizzata attenzione è stato il trailer di Oppenheimer, che certamente vorrò vedermi in sala.
Il secondo tipo di spettatore è innamorato del Cinema al punto di sopportare le lungaggini, gli esercizi di stile, le cose che fanno i registi quando si rendono conto d’essere diventati autori. Non sopporteresti C’era una volta a Hollywood fino alla lanciafiammata finale se non amassi profondamente il cinema come concetto artistico, e non come trama, svolgimento, personaggi più l’adrenalina e una leggerezza non tanto di fondo. Non sopporteresti tutto Birdman o la parte centrale di Revenant e qualunque altra cosa passi per la testa di uno come Inarritu. Eppure l’hai appena fatto, con piacere. E puoi farlo in circostanze insospettabili nell’anno 2023, con i film di paura.
L’horror sta vivendo un periodo florido, e, se ce l’ha fatta dopo due decenni di film sulla falsariga de L’esorcismo di Emily Rose, è grazie a tre autori: Robert Eggers, Ari Aster, Jordan Peele. Tutti e tre hanno realizzato tre film a testa e quello di mezzo, Aster, allunga il curriculum con un numero interessante di cortometraggi. Fra questi figura Beau uscito oltre dieci anni fa. Il film di cui parlerò oggi nasce da lì.
Sono circa quindici anni che percepisco un’inversione di rotta lenta e graduale: pensate a The Orphanage dello spagnolo Juan Antonio Bayona o a certe cose del creativo connazionale Balaguerò, in coppia con Paco Plaza o da solo. Sono circa quindici anni che si sta tentando di togliere l’horror dalla banalità e donargli una più dignitosa veste.
Ari Aster nello specifico se ne è uscito con Hereditary per poi bissare con Midsommar, che alcuni hanno trovato di una pesantezza unica pur rimanendo – su tutta la linea – un titolo di livello molto alto. Non ha la potenza visiva “fumettosa” dell’ultimo Eggers, per quanto lo descrivano una sorta d’allievo ideologico di Kubrick e per quanto Martin Scorsese in persona abbia speso parole significative nei suoi riguardi. La sua forza risiede nella simbologia e nel lasciarti uscire dalla sala riflettendo su cosa hai appena visto, un po’ come faresti con Lynch. Il che porta molti a odiarlo: gran parte di questi sono spettatori del tipo A, ma non è detto. Ari Aster non sprizza la stessa carica di denuncia sociale di Peele, ma trovo i tre registi ben livellati da un punto di vista qualitativo. Ammetto però che alla vigilia di Nope e di Beau ha paura ho percepito aspettative più alte del normale. Il che mi ha portato a stare alla larga da trailer, recensioni e pareri degli amici accorsi il giorno precedente.
Beau ha paura non è un horror bensì una dark comedy edificata su più livelli. Non uno di quei film che a metà esatta svoltano, come Trainspotting alla morte del bambino o Dal tramonto all’alba dopo lo spettacolino di Salma Hayek. Ha una quindicina di minuti iniziali divertentissima (la vedova nera, l’accoltellatore dei compleanni, la bottiglietta d’acqua) e vanta una potenza visiva e concettuale che ti fa presto innamorare del personaggio, controverso e ipocondriaco, avulso dalla società, interpretato da Joaquin Phoenix. Ridi di gusto e un attimo più tardi sei spinto ai limiti del magone dai colpi di scena, magistralmente gestiti, e da uno sprofondamento generale negli abissi della vita passata del protagonista e del suo incerto futuro: tutto ruota attorno al sentimento, sempre forte e spesso di natura opposta, di Beau nei confronti della madre amorevole eppur despotica. Rispetto, timore, odio? Sta a noi decifrarlo, non sono fortunatamente previsti spiegoni. Come in Hereditary i personaggi femminili sono i migliori per scrittura e per la determinazione degli eventi. Joaquin Phoenix però è il film, la faccia, l’espressione.
Al termine della visione siamo stati mezz’ora a cercare d’individuare un cristo che potesse prendere dignitosamente il suo posto, e non c’è venuto in mente. Ma forse avevamo ordinato troppa roba al tailandese. Inoltre abbiamo pensato che certi aspetti meriterebbero l’approfondimento della seconda visione. Il più lampante metro di paragone l’ho individuato in un celebre film del 1998 che all’epoca vidi al cinema: non faccio nomi altrimenti è automaticamente spoiler. Ci sono frequenti riferimenti anche a Charles Kaufman, da Sinecdoche, New York a buona parte dei lavori svolti in seguito anche da sceneggiatore.
Per oltre due ore penserete sia tutto un trip del personaggio principe, e sarà apertamente Ari Aster a dirvi che “solo adesso è davvero un viaggio mentale”, passando agli sfondi animati. Ripercorrerete alcuni cliché già assodati del regista statunitense, come il dramma familiare della perdita di un caro che da il là a eventi ben più oscuri. Godrete di personaggi secondari ben scritti, in uno stile fra i Coen e Gilliam, sebbene qualcuno fra essi, sulle prime, potrà sembrarvi infilato lì un po’ a forza; e godrete di alcune scene oltre i limiti della follia come lo sviluppo e spiegone finale circa il problema testicolare di Beau. Farete però i conti con qualche inevitabile lungaggine atta principalmente a soddisfare l’ego del regista, come l’interminabile ciclo vitale ripercorso dallo spettacolo teatrale nel bosco. Come nel caso di Nope e della sua scimmia assassina, anche qui troverete un cortometraggio incastonato dentro a un film. Starà a voi decidere se codesta scelta l’avrà appesantito oppure no. Il mio parere è che Beau ha paura poteva esser alleggerito di mezz’ora buona e che incespica tuttalpiù nella scenografia acquatica finale, largamente anticipata da quel fast forward al telecomando un po’ nello stile dell’ultimo Funny Games.
Un film morbosamente legato alla natura umana e satirico nei confronti della stessa, che sposta per certi versi l’operato di Ari Aster più dalle parti di Jordan Peele di quanto non fosse accaduto in precedenza. Non ho preferenze fra questo e i due già visionati e revisionati. Con certezza i tre registi menzionati in apertura all’articolo non cadono nel tranello di ripetersi o di marciare eternamente sul successo di un titolo appena fatto, e questo rende loro ulteriore onore. Certamente il fatto che ne esista una platea di accaniti supporter, opposta a una di detrattori, parla in favore della loro spiccata personalità artistica, ben distante dall’epoca filmica che scrive in funzione di quel che dettano gli algoritmi.
Ho inevitabilmente scorto individui perplessi al termine della proiezione, che già all’intervallo sollevavano i primi dubbi. Le stesse persone erano sparpagliate ovunque sulle poltroncine nel 2007, quando me ne uscii euforico da Non è un paese per vecchi e tutti erano incazzati per il mancato scontro finale fra Lee Jones e Bardem, e dunque non avevano compreso il significato del magistrale film appena visto.
Lungi dal voler dichiarare Beau ha paura un capolavoro, sono eccitato all’idea di rivederlo presto e cogliere in esso nuovi dettagli, nuovi particolari. E sarà impegnativo data la sua durata e il fatto di conoscerne in anticipo ogni colpo di scena, oltre al finale. Bellissimo film che fa il paio con Nope, sebbene sia di una natura del tutto divergente dalla sua. E quei tre che stanno riportando l’horror in alto, e che anche quando non dirigono un horror permeano ogni fotogramma di puro orrore, sgomento, disperazione, non li ferma più nessuno. (Marco Belardi)