Avere vent’anni: MANILLA ROAD – Spiral Castle e Mark of the Beast

Spiral Castle è il secondo album dei nuovi Manilla Road dopo la pausa più o meno decennale che aveva grossomodo coperto tutti gli anni Novanta. Arrivò a stretto giro dopo il capolavoro Atlantis Rising, uscito appena un anno prima, e ne mantiene intatte le coordinate stilistiche: tempi lenti, malmostosi, riff doomeggianti ma con più di una fascinazione per il death metal, batteria quasi frenetica che non lascia spazi vuoti. Ma soprattutto Spiral Castle fu una conferma per ciò che i Manilla Road avevano sempre rappresentato: il suono stesso dell’heroic fantasy, del sword & sorcery, dei racconti di sangue, magia e orrore che fecero la fortuna di riviste come Weird Tales e di cui su queste pagine abbiamo parlato innumerevoli volte. E poi c’è Edgar Allan Poe, il grande amore di Mark Shelton, qui omaggiato in Shadow, pezzo ispirato all’omonimo racconto.

Parlare dei Manilla Road descrivendone solo la musica sarebbe davvero riduttivo. Sono stati un gruppo fondato profondamente sul proprio immaginario letterario, e per tutta la loro esistenza hanno cercato di musicare determinate atmosfere e ambientazioni, riuscendoci praticamente sempre e in modi spesso diversissimi tra loro. La varietà stilistica che ne consegue è figlia delle differenti ambientazioni della letteratura a cui si ispirano. Il quarto d’ora finale, diviso tra Born Upon the Soul e la strumentale Sands of Time, è un viaggio nelle atmosfere desertiche che non mancano mai né nelle avventure degli eroi sword & sorcery né nella produzione orrorifica e misteriosa; e il commiato definitivo dell’album è rappresentato da quel violino sghembo e quelle percussioni che si intrecciano in melodie orientaleggianti che danno un’idea di alterità e immota eternità. Sentite poi il riff di Merchants of Death: è la trasposizione in musica di fogli di carta ingialliti, di edizioni tascabili di quarta mano comprate a una bancarella per due spiccioli, dell’odore lieve di muffa che si percepisce sfogliandone le pagine. Spiral Castle fu la dimostrazione che il ritorno dei Manilla Road era una cosa serissima, se mai qualcuno ancora ne dubitasse.

Nel 2002 era stato dato alle stampe anche Mark of the Beast, disco che in realtà era stato registrato nel 1981 e che nel frattempo era stato tenuto nel cassetto. Questo doveva infatti essere il secondo disco dei Manilla Road a nome Dreams of Eschaton (titolo con cui verrà comunque messo in commercio in formato bootleg) ma, a causa del suo stile particolare, gli furono preferiti altri pezzi che poi comporranno l’album Metal, più ortodosso e più in linea con quello che ci si aspettava dopo il debutto. Al contrario, l’atmosfera che si respira nell’ora abbondante di Mark of the Beast è più rilassata, onirica, quasi psichedelica, un filone che loro avrebbero peraltro ripreso molte volte nel corso della loro discografia. Giunti però all’anno 2002 non c’era più motivo per nascondere queste sfaccettature: e così le antiche registrazioni poterono venire alla luce in veste ufficiale, riscontrando anche un ottimo responso da parte dei non molti ma sempre assai devoti appassionati dei Manilla Road. Il fatto che il suono risenta parecchio del tempo trascorso è addirittura un valore aggiunto, considerato di chi stiamo parlando. Ascoltare queste canzoni e pensare che risalgano al 1981 fa capire quanto stessero avanti i Manilla Road già all’epoca. Più di un semplice reperto, Mark of the Beast è proprio un gran bel disco di per sé. Manchi tantissimo, Shark. (barg)

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