Scream for me, Brazil! Quella stramba passione verdeoro per l’italodance estremista

Immagino avrete tutti già letto il titolo del pezzo. Se non siete passati oltre e lo avete addirittura aperto ma siete in dubbio sul chiamare o meno il centro d’igiene mentale, vi fermo subito dicendovi che no, non mi sono bevuto il cervello, purtroppo è tutto vero. C’è stato veramente un momento (primi anni 2000) in cui la terra dei pentacampeones e del miglior caffè al mondo era entrato in profonda sintonia con le più assurde tamarrate strisciate fuori dalle catacombe dello stivale. Come molti di voi avranno avuto modo di intuire da qualche annetto a questa parte il sottoscritto è il più scalcagnato fan di musica trash-senza-acca di redazione e, ringraziando sempre eoni di perverso websurfing orientato solo ed esclusivamente ad estinguere questa mia insopportabile fame, ancora una volta sono qui a raccontarvi le mie scoperte e le mie approfondite analisi riguardanti questa mia profonda devianza.
Ve lo ricordate Magic Box? Quello di Carillon? Spero per voi di no.
All’anagrafe Tristano De Bonis, figlio dell’entroterra pontino, è stato un ottimo interprete della frangia più estremista dell’italodance d’inizio millennio. Estremista non nel senso di violenta o rumorosa: parlo di attitudine, intenzioni, atmosfera.
Per farvi capire bene, immaginatevi questa scena: estate 2001, due fidanzatini del litorale romano che scopano in una minicar modificata sul lungomare di Lavinio; lei con le unghie finte arancioni, il lucidalabbra (quest’ultime siliconate), 7/8 kg di rimmel e il reggiseno trve norwegian push up (per far sembrare una settima la sua scarsa seconda) e lui con delle Nike ributtanti bianche con le fiamme, i capelli ingelatinati a schifio e gli occhiali da sole pure di notte che si chiamano amò per tutta la durata dell’amplesso.
Ce l’avete la fotografia che vi ho appena descritto? Sì? Ecco, nello stereo della minicar, a un certo punto, che musica facciamo partire? Ma OVVIAMENTE o 4 your love o If you o Carillon del nostro amico Tristano, per gli amici Scatola Magggica. Una di queste tre, obbligatoriamente, o tutte e tre insieme. Ma proprio senza neanche pensarci mezzo secondo, mi sembra già di sentirlo.
Ok, fantasie perverse su giovani e litorali romani a parte, Magic Box era l’ISIS dell’italo dance. La tamarraggine gigidagostiniana portata all’illegalità e che si fa associazione terroristica. Le ultime cartucce di un genere una volta solido e forte ma che in quegli anni si stava precipitosamente ritirando, e non c’è cosa più pericolosa di un esercito in fuga. Basi di una faciloneria brutale, testi di una stupidità tonante, melodie da diabete fulminante.
Ora, perché il Brasile? Non lo so, non so darmi una risposta. Non vedo grandi connessioni con la samba, la bossa nova, le finte di Ronaldinho o gli Iron Maiden, ma dopo aver visionato più e più volte sul tubo il live di Magic Box a San Paolo nel 2004 (questo 2004 torna sempre nei miei articoli, mannaggia oh, come il prezzemolo, non ci voglio credere) posso affermare con certezza che per qualche oscuro motivo questa junk music nostrana faceva sfaceli da quelle parti. Saranno i brasiliani che si esaltano con poco, che sono calorosi con tutti, non saprei. Anche solo dando una rapida scorsa ai commenti degli utenti sotto al video si ha davvero l’impressione che tutti abbiano assistito a una specie di loro personale Made in Japan.
Ah, quasi me ne stavo dimenticando: quel giorno del 2004, a conquistare il Brasile con Magic Box c’era pure sua sorella Erika. Sorella d’arte (anche lei italodance corrente estremista, che bella famigliola ragazzi!), di discreto successo per un paio d’anni (Relations e Ditto forse le avete sentite), discretamente fregna (parere personalissimo, opinabile… Ma fatemi sapere cosa ne pensate eh, e se non la pensate come me: vaffanculo, siete dei culattoni!).
Una coattaggine da litorale laziale in minicar però più delicata, più intima. Probabilmente Erika parte nello stereo quando il lui della coppia qui sopra farfuglia alla sua lei: “Rebbecca sei a vita mia… Rosa mia… Alba mia… Luna mia”
Comunque è bellissimo vedere questi brasiliani tutti ammassati salire uno sull’altro, urlare tutti i testi, fare le piramidi, agitarsi, sgomitare, mentre ascoltano questa boretta dell’entroterra pontino coi capelli viola che bercia i suoi TU-TA-TARARARA da gita scolastica a Mirabilandia credendosi però Madonna negli anni ‘80 mentre canta Material Girl a Wembley, porco giuda. Ma pure giustamente credendosi Madonna (se non LA Madonna). È giusto così, con un pubblico del genere è quasi una conseguenza. Cazzo fai, resti umile? Sono tanti, giovani e forti, e tutti lì per loro.
Si respira qualcosa di trash ed epico allo stesso tempo. Magic Box pare fuggito dal manicomio criminale di Brasilia la notte prima: indossa degli improbabili occhiali tutti appannati che sembrano occhialetti da piscina ed è tutto sudato da fare schifo già dopo una traccia. È talmente fomentato che ogni tanto lancia degli acuti da Bee Gees del Todis da far accapponare la pelle, oppure degli agghiaccianti Incredible! Great great great! tra una base e l’altra che se non fanno accapponare la pelle come gli acuti quantomeno un bel singhiozzo ve lo procureranno, istantaneamente. È tutto troppo anche per lui, capite?
Sua sorella Erika, neanche a dirlo, è la regina della festa. Coattellina carina che sta con quello più grosso della comitiva al mare (sì, quello che la porta a vedere la Lazio la domenica pomeriggio e si è tatuato Erika te amo sul polpaccio in caratteri pseudo gotici affianco all’aquilotto biancoceleste e quando si lasceranno lo cancellerà e se lo farà sostituire con la frase Non c’è cattivo più cattivo di un buono che diventa cattivo) ma che, calata in quel contesto, con quel pubblico, con quell’atmosfera lì, si ricopre di nobiltà e classe.
Una donna faraone che suda di fronte ai suoi schiavi idolatranti.

Erika, la Cleopatra del litorale romano
So che da qualche parte c’è un perché a tutto questo. A tutto questo calore, a questo gemellaggio inspiegabile, e un giorno lo scoprirò. A costo di andare personalmente in Brasile a studiare il suono che gli indigeni dell’Amazzonia riproducono sbattendo le tibie dei formichieri morti sul tronco degli alberi.
Chissà, magari è proprio lì la risposta. (Gabriele Traversa)
che pezzone ‘sto articolo, uno spasso! .. e alla fine mi è pure venuta voglia di tagadà-TU-TATARARARAAA’ ahah
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Orgoglio pontino. Traversa fasullo.
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Grandissimi interpreti.
Non c’è alcuna contraddizione comunque, per un guerriero del metallo, nell’apprezzare questo genere e questo stile.
Il metallaro è, prima ancora che disagiato, un tamarro.
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