Così nacque il mito dell’Erasmus in Spagna: LAS KETCHUP – Hijas del tomate

Si può impostare questa recensione in diversi modi. Potrei fare lo stucchevole nostalgico, raccontandovi di quanto erano felici (MAH) e spensierate (forse questo sì) le mie vacanze estive nel 2002. Le partite a pallone, il mondiale di Corea e Giappone (di cui sapevo pure quanto portava di piede il centravanti di riserva della Tunisia), la PlayStation, il Game Boy, le prime pip… No, con quelle iniziai l’estate successiva, se non ricordo male. Oppure potrei attaccare la solita solfa da finto uomo vissuto dicendo che mi sento vecchio perché ricordo perfettamente quando uscì The Ketchup Song (Aserejé) e celermente si diffuse come un brutto raffreddore estivo, e quindi: “Oh no, non ho più vent’anni perché se ricordo un disco che oggi compie vent’anni come faccio ad averli anch’io, porco zio, sono grande e ancora non vado la domenica mattina a raccogliere le olive nella mia terza casa in campagna con mia moglie, sono un fallito di merda, adesso mi uccido”.

Un altro modo potrebbe essere avviare una dotta analisi socio/antropologica su quanto queste tre scappate di casa abbiano, col loro immaginario festaiolo da universitarie in cerca d’avventure, influenzato e/o incentivato la moda degli Erasmus e/o delle vacanze rimorchierecce nell’ottima Spagna.

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Se ti ricordi questo film, sei un vecchio di merda. Se eri riuscito a scordartelo, perdonaci.

Potrei quindi aprire una digressione su quel mio amico con cui una volta, dieci anni fa, dovevo scendere in Salento ma mi diede buca il giorno prima della partenza perché lui (IN SPAGNA) si era svegliato in stato comatoso con due bracciali di due feste di cui non ricordava assolutamente nulla e aveva perso l’aereo (dovetti ripiegare all’ultimo sui comodissimi pullman della Marozzi, chi li conosce sa di che parlo). Ma la colpa non è del mio amico, poveraccio, la colpa è OVVIAMENTE delle Las Ketchup e del loro nichilismo autodistruttivo senza senso del limite qui non si fanno prigionieri che, già anni prima, aveva compromesso irrimediabilmente agli occhi del mondo l’immagine della terra di Miguel de Cervantes, dipingendola come un luogo di perdizione, depravazione e dissolutezza dei costumi. Eh, scusate tanto, se un amico vostro torna da una gita nelle campagne inglesi vicino Ipswich e comincia ad avvicinarsi con un certo appetito alla vostra giugulare mica è colpa sua, è colpa OVVIAMENTE dei Cradle of Filth. Oppure se vostra madre torna da un weekend nelle assolate campagne dell’Emilia Romagna e non vi sembra più la stessa perché ha cominciato a parlare di delitti e misteri con un marcato accento bolognese, non è mica impazzita tutta d’un tratto, è colpa OVVIAMENTE di Pupi Avati).

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De jebe tu de jebere seibiunouva majavi an de bugui an de güididípi

Un altro modo ancora potrebbe essere iniziare a citare gli svariati spot pubblicitari/cinepanettoni (il tormentone fu inserito anche nella colonna sonora di Natale sul Nilo) in cui Aserejé presenziò, permettendo a queste tre oche di vivere di rendita senza farsi più dare i soldi da papà per il vodka lemon beach party; per quindi poi fare un discorso sull’efficacia chirurgica di certe hit estive se accompagnate da immagini di chiappe, costumi da bagno, gelati e balletti scemi.

E invece no. Inizierò e concluderò questa recensione dicendovi semplicemente che questo non è un album.

Giusto, hai ragione, non è un album, è un tocco di merda, un aborto, meglio il coronavirus, mi direte voi.

No, io vi dico che questo non è album proprio in senso tecnico: 11 brani, di cui 4 sono The Ketchup Song (Aserejé), Aserejé (Hippy), Aserejé (Karaoke Version), Aserejé (Spanish Version).

Durata totale: 37 minuti e 32 secondi. Questo non è un album, è un singolo, al massimo un Ep, care le mie truffatrici spagnole in tempesta ormonale dalla sbronza facile.

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E con questo finale anticlimatico vi auguro un buon (e nel segno dell’acchiappanza, se siete single, ma anche se non lo siete) finale d’estate. Buenas tardes, cabrones! (Gabriele Traversa)

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