Avere vent’anni: SIGUR RÒS – ( )

Se, come sapientemente osservato dal buon Trainspotting, The Mantle è il disco che “rappresenta l’autunno”, il terzo lavoro dei Sigur Ròs è la quintessenza dell’inverno nella sua declinazione più placida, ineluttabile e sublime. Un inverno ovattato, privo di rumori, come una baita in mezzo al nulla in cui è possibile solo sentire il non-suono della neve che cade dal cielo, mentre si attende qualcosa che forse non arriverà mai.

La musica di ( ) è quasi una rappresentazione delle sensazioni che può dare tale stasi assoluta, definitiva, rappresentata attraverso un importante processo di sottrazione rispetto al passato. Il suono si spoglia delle tentazioni elettroniche di Von, così come – quasi completamente – della magniloquenza di determinate orchestrazioni e dell’approccio più diretto del precedente Ágætis Byrjun. Ogni composizione viene ridotta all’osso, con una costruzione volutamente minimalista che sembra essere fatta apposta per lasciare il tempo all’ascoltatore di riflettere, viaggiare dentro sé stesso e richiamare alla mente memorie passate.

Ciò che però anche a distanza di vent’anni lascia davvero basiti è che, nel suo essere così minimale, il disco “innominato” degli islandesi contiene al suo interno un universo capace di abbracciare il post-rock, la psichedelia dei Pink Floyd, il dream-pop, echi di Radiohead e momenti quasi wave. Il tutto con tracce vocali che diventano un vero e proprio strumento che si inserisce nel flusso del resto degli strumenti, rinunciando persino ai testi, essendo i brani “cantanti” in una lingua immaginaria, riprendendo l’esempio di Elisabeth Fraser e soci.

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Tutto questo crea un mood difficilmente descrivibile che potrebbe riassumersi nello “happy/sad”, di timbuckley-iana memoria: composizioni estremamente malinconiche dagli incipit ombrosi che però contengono sparuti incostanti sprazzi di bellezza a dir poco commoventi. Perché, a mano a mano che i Sigur Ròs tratteggiano questo quadro di un bianco accecante, non si può fare a meno di restare ammaliati dalle atmosfere estremamente sentimentali che contraddistinguono la prima parte dell’album, così come, proseguendo nell’ascolto, non si rimane indifferenti rispetto alla sinfonia psichedelica che chiude il sesto brano, o alla pesantezza della lunghissima settima composizione.

E poi c’è quel gioiello assoluto di Untitled #3 (Samskeyti), composizione assai evocativa che, a livello personale, per me sarà sempre legata ai pomeriggi dei primi mesi del 2003 quando mi trovavo al bar vicino all’università, insieme alla ragazza che sarebbe diventata mia moglie e al mio migliore amico, mentre su MTV passavano le notizie sull’attacco americano in Iraq. Tra i tanti video “per la pace” passava questo montaggio sulle note di Untitled #3 che all’epoca trovavo struggente anche per il contesto in cui si inseriva e che oggi trovo commovente perché mi ricorda quel bar immerso nel fumo, la confusione delle notizie che vedevo passare sullo schermo, l’ansia per il mio domani e la gioia di essere stato in quel momento, in quel posto, con quelle persone.

Sensazioni e ricordi che solo i grandissimi album possono provocare, e ( ) è da ascrivere pienamente in questa categoria. Purtroppo però, pur avendo i Sigur Ròs continuato a pubblicare buoni dischi, nulla di quanto fatto prima e dopo potrebbe mai competere con i 70 minuti del loro terzo album. Un lavoro perfetto, che trascende i generi e che parla un linguaggio che è letteralmente sia universale – perché intimamente comprensibile da tutti – sia indecifrabile. Uno dei capisaldi della musica tutta degli ultimi vent’anni. (L’Azzeccagarbugli)

2 commenti

  • Gli preferisco il disco precedente ma è una questione di gusti, quei due dischi sono inattaccabili e bellissimi, una volta tanto il termine capolavoro ha senso.

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  • Concordo su ogni singola parola.
    Un riassunto perfetto dell’essenza di un disco perfetto.
    Dei Sigur Ros apprezzo moltissimo anche la capacità dimostrata negli anni di saper unire il visuale alle loro composizioni, con video o rappresentazioni live che riuscivano in qualche modo a rendere tangibile l’intangibile della loro musica e dei loro messaggi.

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