La lista della spesa di Griffar: ANTIGONE’S FATE, FALDIR, AŪKELS

Nonostante ci sia qualche discrepanza sulla data effettiva dell’uscita di questo disco (chi dice il 27 gennaio, chi il primo febbraio) questi pochi giorni di differenza sono solo questione di lana caprina. L’essenziale è che gli ANTIGONE’S FATE, tedeschi, uno dei gruppi di spicco della scuderia Northern Silence – che ha nella sua faretra frecce che fanno invidia agli archi di etichette ben più blasonate – hanno pubblicato il loro terzo full lenght Fragmente. Ci troviamo di nuovo su livelli di qualità altissimi, perché il polistrumentista Ruun, che è l’unico elemento della band, esecutore compositore ed arrangiatore di tutto quanto, ha una maestria veramente eccelsa nel maneggiare le melodie di derivazione classica, come ne ha nell’incorporare elementi di melodic death metal di tradizione svedese (specialmente quello dei gruppi della seconda ondata come Armageddon, Ablaze my Sorrow e simili) e di speed metal teutonico su schemi più tipici del black metal atmosferico/sinfonico.
I brani sono quindi tutti incentrati su armonie soffuse, essendo lunghissimi in due casi su tre: quattordici minuti e mezzo il primo Vrìka to thánato, ventuno minuti abbondanti il secondo Den Königen Elend und Verfall. Ruun ha sfruttato questo suo talento riuscendo a giungere all’inconsueto risultato di non annoiare neanche per un istante l’ascoltatore, nonostante queste suite così monumentali e complesse. Non è da meno la conclusiva Sonnenaufgang da poco meno di sette minuti, un brano quasi breve per gli standard della band che non è nuova a comporre brani estremamente lunghi nei quali si trovano i contesti più disparati, dal passaggio super-malinconico al brioso incedere di un riff melodico speed metal fino al blast beat adrenalinico che fa saltare tutto quanto in aria. Tutto questo coesiste alla perfezione e produce un risultato che per lunghi tratti lascia a bocca aperta, oltre a una grande invidia per chi sa comporre musica di questo livello; purtroppo a quanto sembra Antigone’s Fate non riesce ad uscire dalla nicchia ed a raggiungere un pubblico più vasto come di certo si meriterebbe. Speriamo che questo album riesca nell’intento, in quanto qualitativamente siamo ai vertici del post-black melodico, con passaggi vari ed in molti momenti davvero incantevoli. Oggi come oggi senza paragoni, segnatevelo pure perché già vi anticipo che questo CD finirà nella classifica dei dischi dell’anno, e spero non solo nella mia.
Tales of the Dark Age è il debutto della one man band australiana FALDIR, sui confini tra l’Ep e il mini-album visti i suoi venticinque minuti di durata suddivisi in quattro brani più un intermezzo atmosferico per archi e tastiere (Elder Ones) stranamente non inutile. Dico stranamente perché molto spesso queste canzoni sono riempitivi per allungare il minutaggio; in questo caso, però, il pezzo in questione sembra più un’intro della successiva Frozen, I Wander, che già di suo è la più lunga del disco e che all’inizio riprende proprio l’interludio precedente, sia con gli archi che con un passaggio di tastiere con effetto clavicembalo, evolvendosi poi in un lento e cadenzato pagan metal molto suggestivo. Vedendola in quest’ottica, abbiamo un pezzo sui dieci minuti di pagan/medieval black metal con tanto di archi e clavicembalo di notevole valore. E l’intero Tales of the Dark Age è nondimeno un bel dischetto che piacerà di sicuro a chi apprezza il black metal grezzo dalle atmosfere epiche e medievaleggianti come quello dei primi Falkenbach o delle demo dei Moonsorrow di cui s’è avuto recentemente modo di parlare, anche perché Faldir ha sonorità che molto rimandano allo stile finlandese grezzo e vibrato con oscure melodie di enorme livello, fino ad arrivare ai moderni Ungfell che attualmente penso non abbiano rivali in questo sottogenere del black. I primi tre pezzi sono sicuramente sulla falsariga di questi maestri, poi, come ho già detto, nel finale un po’ cambiano verso cose meno violente e più d’atmosfera, anche se non si discostano in modo troppo smaccato dall’impostazione generale. Esordio di assoluto valore, andateci sul sicuro.
Altro disco davvero notevole è Raynkaym, esordio dei polacchi AŪKELS, che con il loro black metal atmosferico piuttosto marcio mi ricordano un paio di cosette molto vecchie e molto godibili delle quali spero abbiate almeno sentito parlare: Towards the Frozen Stream dei finlandesi Vordven (disco leggendario!) e Niemals kroenender als was einst war dei tedeschi Arathorn, altro esempio di come nel black metal si sia riusciti a comporre musica terribilmente grandiosa. Marziale, lento e cadenzato a tratti, suonato con riff ad accordi aperti e con il vocalist che ci mette tutto quanto gli è possibile per rendere il mood il più oscuro e tragico possibile, grazie alla sua impostazione strana e al suo screaming basso e riverberato distante un paio di ottave dal classico screaming squartaorecchie. Quando accelerano con le tastiere in sottofondo, gli Aūkels fanno venire i brividi come accadeva coi dischi di venticinque od oltre anni fa, quando tutto era ancora nuovo ed eccitante. Il bello è che, con partiture semplici e senza fare nulla di strabiliante o incasinato oltre ogni limite, questi polacchi ci regalano uno di quei dischi che ti ascolteresti una volta al giorno ed anche di più, perché ne senti il bisogno. Perché è bello, che cazzo. È bello. Anche questo è eccitante, nel senso che coinvolge, rapisce l’attenzione, ti mette sul pezzo. Perché vale ogni centesimo che costa, e su questi dischi ci si ripiomba spesso e volentieri come su una buona bottiglia di vino, un bicchiere non basta. Oltretutto non è eccessivamente lungo: trentadue minuti divisi in 4 brani eccellenti tutti concatenati tra loro come fossero quattro movimenti di un unico pezzo (e non a caso non hanno titolo, a meno che non vogliamo considerare titoli i numeri romani I, II, III e IIII). Non ti metti a fare altro mentre ascolti Raynkaym, te lo gusti tutto, oggi, domani e poi ancora. (Griffar)