Cosa resterà di questi anni Ottanta: COBRA KAI

Ho recuperato tardivamente le prime due serie (la terza esce a gennaio) perché l’operazione mi puzzava di puttanata e in effetti sì, lo è discretamente, ma in una accezione non troppo negativa, o non sempre negativa. Insomma, alla fine questa serie si tollera e in certi frangenti risulta anche piacevole se sai guardarla con occhio non eccessivamente critico e ti lasci prendere dalla nostalgia (che poi è l’obiettivo perseguito). Inoltre, per quanto sia afflitta da una fotografia da telenovela sudamericana (forse appositamente per darle quella patina di vecchiaia artificiale), scorre via facile e non mi è risultata per nulla indigesta (sebbene abbia sperato fino alla fine nel coup de theatre dell’aitante Pedro che si batte contro il facoltoso Don Juan per la mano della bella Carmen).
Gli ingredienti sono i soliti: da quelli generici da cui origina un sequel (revivalismo, i bei tempi passati, gli anni motorino sempre in due, la ricontestualizzazione dell’eroe e del villain, etc.), a quelli che fanno riferimento specifico alla tetralogia (ma facciamo anche solo trilogia) di Karate Kid (il bullismo, la vendetta e il perdono, la scorrettezza e l’onore, i galli contro gli sfigati – che ora sono diventati nerd e saputelli – etc.). A tutto ciò si aggiungono immancabili argomenti di contemporaneità, quali il tema del body shaming, del bullismo a sua volta evolutosi in cyberbullismo, della body positivity, dell’identità di genere e così via, con una spruzzatina qua e là di age discrimination (dalla regia mi dicono il termine corretto sia ageism) e femminismo, che fa sempre bene e non deve mai mancare in una serie originale Netflix che si rispetti, figuriamoci in una dove il 90% degli attori impersonano degli adolescenti molli e viziati.
In questo pot-pourri ideologico all’acqua di rose, quella che ci viene risparmiata, grazie a dio, è tutta la retorica antirazzista: in una Valley opulenta, dove nello stesso territorio convivono il ricco e l’inserviente che gli spiccia casa, ma in cui le persone dalle caratteristiche antropometriche non caucasiche appaiono perfettamente integrate senza che nessuno te lo sbatta continuamente in faccia e senza compiaciuti applausi alla grandezza progressista del melting pot ammerigano, il tema della discriminazione di razza è abilmente sostituito da quella di classe sociale, elemento tenuto costantemente vivo sullo sfondo della narrazione.
Il filo rosso che collega questa serie al glorioso primo film di Karate Kid del 1984 è doppio. Il primo elemento che, dal mio punto di vista, rende godibile la serie è, dunque, l’utilizzo degli stessi attori dell’epoca (quelli ancora in vita). Ci sta Daniel Lorusso che è diventato un vero pizzarrone (immaginifico termine che ho mutuato dallo slang dei miei esimi colleghi apuli e che riassume perfettamente tanti concetti): dai tempi in cui metteva e toglieva la cera sulle macchine di Miyagi ha fatto carriera nell’automotive diventando un ricco concessionario di auto di lusso, ha una posizione sociale, gli agganci buoni, l’iscrizione al country club giusto, una moglie topa che lavora con lui, una Audi S8, la villa con piscina, due figlioli cacacazzi, e per farsi pubblicità in televisione sfrutta i trascorsi da campione locale di Karate. Ci sta il biondo Johnny, il famoso cattivodikaratekid, che è diventato un disadattato rimasto fermo agli anni ’80 nei modi, nel linguaggio e nel vestiario, campa di lavoretti, beve troppo, vive in una topaia, non ha vita sociale, usa ancora un cellulare coi tasti (ovviamente il personaggio migliore di tutta la serie), il cui nuovo scopo nella vita è ridare gloria al Cobra Kai, trovandosi costretto ad accettare femmine e perdenti tra i suoi allievi a causa di un gioco scorretto da parte del buon Daniel san, e non i killer che avrebbe voluto addestrare, cercando di dar loro una svegliata nonostante le inevitabili accuse di sessismo-omofobia-patriarcalismo-etc. cui fa fronte con l’attitudine di un rozzo boomer. Ci sta pure il vecchio sensei John Kreese, che è sempre il solito pezzo di merda, un vero serpente rispuntato fuori dal nulla dopo aver simulato la sua morte, il quale ha l’unico obiettivo di fottere la gente e creare zizzania mettendo gli uni contro gli altri. A un certo punto, verso la fine della seconda serie, ricacciano fuori anche la ex fidanzatina di Johnny il biondo, la bellina della quale si infatuò Daniel e che lo portò a mettere su tutto il casino che ben ricordiamo, la quale è diventata una discreta milfona che credo e spero avrà un ruolo più definito (magari pornografico) nella terza serie. In una puntata fa capolino anche la vecchia gang di motociclisti di Johnny. E niente, la cosa mi ha quasi commosso. Il secondo elemento è che i ruoli qui si ribaltano spesso e i confini tra chi è buono e chi è cattivo sono molto sfumati (con l’esclusione dell’ex sensei pezzodemmerda, che resta il più coerente di tutti), il che, a prescindere dall’ampia prevedibilità del tutto, favorisce la ricerca di varietà nelle puntate e il dipanarsi di una sceneggiatura che non poteva aspirare a particolari voli pindarici.
Come si è intuito, il buon Lorusso (che già all’epoca era un discreto stronzetto) approfitta della sua posizione sociale per far naufragare il progetto di Johnny, spesso rinfacciandogli che è un pezzente e divertendosi a bullizzarlo così adesso capisci cosa si prova, accanendosi su un fallito che sta cercando una via di uscita, ma poi si redime. Johnny, invece, è diventato una persona meglio, è fondamentalmente un puro, vorrebbe anche riabilitare il vecchio sensei nonostante gliene abbia fatte passare così tante, anche se dentro ancora arde la nera fiamma del Cobra Kai che lo porta a fare un sacco di cattiverie gratuite, ma poi si redime pure lui. E così via, amici.
Insomma, fiumi e fiumi di retorica e tarallucci & vino che però stranamente non mi hanno dato particolare fastidio. Penso che il motivo sia da ricondurre a certe scelte estetiche volutamente d’antan (non ultimo quella dei riferimenti musicali e della colonna sonora, a cavallo tra rock, metal ed elettronica dell’epoca) e soprattutto ad aver azzeccato il personaggio di Johnny Lawrence che è un dinosauro deliziosamente fuori dal tempo.
Cobra Kai è una smaccata apologia degli anni ’80 nella quale si ricorre spesso all’espediente dei flashback del film per ripercorrere senza vergogna alcuna il mito da cui trae linfa, sfruttando tutti i cliché possibili ed immaginabili. Per chi all’epoca c’era, tutto ciò può avere un senso. Il rischio è che per tutti gli altri la cosa possa risultare nulla più di un documentario. (Charles)
“in una Valley opulenta, dove nello stesso territorio convivono il ricco e l’inserviente che gli spiccia casa, ma in cui le persone dalle caratteristiche antropometriche non caucasiche appaiono perfettamente integrate senza che nessuno te lo sbatta continuamente in faccia”. E niente, mi sono fermato qua. Forse non è la vera Valley.
Scherzi a parte, la colonna sonora è perfetta e anche in grado di reggere autonomamente (ascoltare in streaming per credere), anche grazie alla breve durata dei pezzi; a mio avviso è meglio anche di molte uscite synthwave, una vera sorpresa.
Quanto alla serie, la maglia raglan degli Zebra e la Pontiac Trans Am dell’86 di Johnny Lawrence valgono da sole la visione, ma, dopotutto, perché privarsi di un po’ di sani calci e pugni assestati acrobaticamente?
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Solitamente non reggo le serie tv, per tempistiche e per dilatazione degli eventi, ma questa l’ho davvero macinata, le puntate durano il giusto e il ritmo scorre bene. Lodevole il ribaltamento di ruoli, le coreografie sono ben realizzate e abbastanza nitide( e se vi sembra poco, andatevi a rivedere certi cinecomics dove gli addetti al montaggio lavorano più degli stuntmen) e il cast è azzeccato. Interessante il fatto secondo cui per molti sia Larusso il vero cattivo di karatekid, con tanto di video dove lui e Johnny analizzano le varie scene di combattimento per vedere chi dei due si difende e chi attacca.
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Sono tornato qui apposta per dire che Cobra Kai e` bellissimo, a livello di Ritorno al Futuro.
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