STEVE PERRY – Traces

Chi vi scrive considera Steve Perry inequivocabilmente, clamorosamente e perentoriamente la più grande voce hard rock di sempre. Non mi sembra ci sia pure tanto da discutere su questo: estensione vocale spaventosa, limpido come l’acqua che sgorga dalla fonte, tecnicamente di un’altra categoria. E non è un caso che tanti altri “addetti ai lavori” (Brian May per citarne uno, che di certo ne conobbe una assai illustre, di voce) lo considerino, e qui cito testualmente una voce su un milione.

Alla veneranda età di settant’anni (la stessa del mio caro genitore), e a distanza di ventiquattro anni da For the Love of Strange Medicine, ecco che arriva Traces. Ovviamente sulla medesima scia melodica/AOR che ha sempre contraddistinto la carriera solista del cantante della Bay Area, molto più di quanto si sia mai sentito sui lavori dei Journey dove egli è presente. Il suo primo disco, Street Talk, era un discreto album con dei buoni momenti sparsi, ma in generale troppo sottotono, e a quello sarebbe seguito il ritorno al lavoro con i Journey, la cacciata di due colonne portanti come Ross Valory e soprattutto Steve Smith, uno dei batteristi migliori sulla scena, con conseguente decisione della band di affidare il lavoro di produzione allo stesso Perry, vista la recente esperienza dell’album solista. Il risultato fu Raised on Radio, album anch’esso sotto tono che prese qualche disco di platino ma che allo stesso tempo accentuò il declino della band di San Francisco, la quale si ritirò a leccarsi le ferite per ben dieci anni, senza farsi più vedere né sentire, o quasi. Specialmente Steve, che da quel momento si isolò e divenne un personaggio molto schivo e senza alcun contatto con la scena musicale. 

Non cantavo più nemmeno sotto la doccia“, ebbe a dichiarare anni dopo, “e ho ascoltato solo musica ambient per anni, evitando tutto ciò che contenesse strumenti musicali o voci. Mi faceva sentire più sicuro. La svolta avvenne parecchi anni dopo grazie a Give Me The Reason di Luther Vandross, album che amo di un grande cantante“.

Cosa aspettarsi dunque da questo Traces? AOR melodico, ovviamente, e un Perry che non può certamente esprimersi sugli stessi livelli di un tempo, per ovvie ragioni, ma che ha ancora da insegnare tanto ai più giovani. Seppure non ha più l’estensione di un tempo, riesce a compensare con la grande anima che ha sempre avuto, dimostrando sempre la sua tecnica e versatilità. Immenso anche nella vecchiaia. Leggenda e gran signore che scelse di non esibirsi con il resto dei Journey in occasione della loro presentazione alla Rock’n’Roll Hall of Fame due anni fa, lasciando il palco al giovane leone Arnel Pineda, artista che non a caso più di ogni altro lo ricorda nelle sue prestazioni.

La voce arrochita dal tempo sfoggiata su Traces è lo strumento principale di un bell’album malinconico in puro stile Steve Perry, in parte ispirato dalla tragica perdita della compagna, l’attrice Kelly Nash morta nel 2012 a causa di un tumore al seno. Chi ha seguito la carriera del cantante da vicino sa a cosa mi riferisco e apprezzerà certe sfumature. Più che il valore intrinseco della musica che esso contiene, è il piacere e il privilegio di poter sentire ancora la grande, grandissima voce di questo immortale interprete. (Piero Tola)

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