Avere vent’anni: TYPE O NEGATIVE – October Rust
Nell’autunno 1996 una piccola ma importante parte del mio mondo sarebbe finita in frantumi. Le vacanze erano state belle ma era tempo di tornare a scuola, il che manco a dirlo non mi piaceva per niente: più freddo, giornate più corte, un’insegnante che mi odiava, scaldare il banco sei giorni su sette un lavoro non retribuito, stessa routine. Una sola novità, in peggio: erano gli ultimi sussulti di vita prima del collasso della rivista che rendeva quella routine sopportabile, che più di ogni altra mi abbia mostrato cosa cercare in quegli anni formativi. La crepa si era aperta durante l’estate: seconda edizione del Metal Shock On Stage annullata fuori tempo utile perché la notizia arrivasse (Internet ancora un oggetto macchinoso sconosciuto ai più), gente da mezza Italia davanti a un cancello chiuso, comunque vaso già traboccato da mo’ per altri logoramenti e scazzi che posso solo immaginare ex post, allora invisibili a chi non c’era (io non c’ero). I numeri continuavano a uscire, sembrava tutto normale ma qualcosa stava finendo e lo sentivo, come i cani quando sentono il pericolo: meno recensioni, news più frammentarie e approssimative (quando prima erano una traduzione pedissequa dei gossip di Kerrang!, due numeri in uno, in differita di un mese), nuove firme senza storia né identità, toni apocalittici negli editoriali, caratteri più grandi e foto gigantesche a malcelare un vuoto contenutistico che di lì a poco sarebbe diventato voragine, poi buco nero. Tempi tetri stavano arrivando; con una specie di sesto senso che torna fuori regolarmente nelle questioni per me cruciali, me ne ero reso conto. Comunque non c’era nulla che potessi fare, a parte assistere. Nel numero di settembre 1996 c’erano i Type O Negative in copertina, la foto di October Rust invece in quarta: gli ultimi fuochi.
Un solo cambio di batterista dal 1994 e per sempre, i Type O Negative erano ancora in vetta, di più: l’apice di popolarità continuava a crescere, a innalzarsi. Video di pomeriggio su MTV – allora uno strano ibrido tra la versione londinese e la nascente edizione italiana – quel che più conta, su richiesta degli ascoltatori (ho visto con questi occhi My girlfriend’s girlfriend mandata in onda tra le 16 e le 17 di un mercoledì qualsiasi, preferita da un telespettatore alle Spice Girls, Prince, i Garbage, il resto del repertorio da autunno 1996: come rendersi conto di avere un elefante in salotto, più o meno), October Rust nelle classifiche di vendita, Peter Steele opinionista nei talk show americani. Se il cielo era un limite, presto l’avrebbero superato: dalle prime edizioni a tutto il 1997 presenza fissa nel cartellone dell’OzzFest – per chi ha la fortuna di non ricordare o non sapere, il mostro partorito da Sharon Osbourne a delirio di onnipotenza già da quel po’ in pieno effetto, il virus Ebola inoculato nel metal, dopo il quale soltanto macerie (è ancora così: la nottata deve ancora passare, se mai passerà). “Una fonte di lavoro”, lo definì Peter Steele con l’understatement che sappiamo; nei fatti, l’inizio della progressiva dissoluzione. Intanto, sotto come va per qualche tempo ancora.
October Rust non è Bloody Kisses: non ha la stessa grandeur, la stessa incommensurabile volontà di potenza mista a delirio hughesiano del prototipo, la stessa struttura pazzoide nei cambi di tono, di umore, nei testi – sintesi perfetta dell’essenza di Cioran, Artaud e Edward D. Wood Jr., tutto in una volta, tutto insieme. C’è una cover migliore dell’originale (Cinnamon girl, Neil Young) ma le similitudini finiscono qui. October Rust è il disco per mantenere le posizioni e allargare a dismisura il raggio d’azione: la vita in prima è migliore, non si può più proclamare di odiare tutti (con argomentazioni peraltro convincenti), niente più cazzi in copertina se non si vuole scendere dal treno, soprattutto quando su quel treno si è in pieno diritto di starci. October Rust ne è la dimostrazione. “Un delicato esercizio di cerchiobottismo”, verrà definito da Paolo Giordano nella recensione che più di ogni altra io abbia letto mai ne ha colto esattamente il punto. Ma limitare la faccenda a questo sarebbe riduttivo: Peter Steele era il Leonard Cohen della mia generazione, Josh Silver il suo Phil Spector. Non sarebbe potuto uscire un disco meno che colossale, insensato aspettarsi il contrario: e infatti, il risultato ancora qui sta. A parte Love you to death, My girlfriend’s girlfriend, la già citata cover migliorativa di Cinnamon girl, della struttura orizzontale di October Rust non si ricorda un pezzo che sia uno, oggi come allora, ma perdersi nel flusso resta tra i naufragare in assoluto più dolci possano venire in mente, oggi come allora. È un mondo a parte October Rust, un universo parallelo il cui biglietto d’ingresso sta nel disco stesso, la sola possibilità di visitarlo; desiderare di restarne intrappolati, invischiati nell’oltremondo prefigurato qui, la logica conseguenza. Non lo riascolto spesso per una sola ragione: quando ricapita, vorrei viverci dentro e non uscirne più, vorrei che la mia esistenza fosse questo. È chiaramente impossibile, dunque so perfettamente cosa aspettarmi dopo la fine dell’ultima nota dell’ultimo pezzo: solo dolore, ritorno alla realtà, quindi altro dolore.
Metal Shock avrebbe cessato di esistere di lì a un paio di numeri; al suo posto un fogliaccio illeggibile con lo stesso nome che per pura affezione avrei continuato a comprare, ogni volta regolarmente altre sdentate non importa quanto fossi deciso a farmela andar bene. Come un cane ripetutamente preso a calci che comunque continua a tornare dal padrone: questo succede quando mi lego a qualcuno o qualcosa nonostante tutte le avvisaglie possibili, che volontariamente scelgo di non vedere, mi urlino da ogni parte di mollare il colpo. Quantificare il numero di legnate che devo buscare prima di rendermi infine conto che non è aria, come calcolare la cifra esatta del pi greco. Non importa: volevo tenere botta e avrei tenuto botta. Intanto, era il 1996 e il mio mondo era migliore. (Matteo Cortesi)
Questa recensione ha dentro tutto.
Ormai è ufficiale: vi amo quasi quanto amo October Rust..
Grazie.
"Mi piace"Piace a 1 persona
My girlfriend’s girlfriend… un pezzo che Patty Pravo aveva già scritto vent’anni prima. A me, questa tirarsela da bello, dannato e tormentato, di Peterone, mi è sempre sembrata, appunto, solo tirarsela, cioè, qualcosa di appiccicato alla sua immagine. Per quanto riguarda la musica, pure quella, sopravvalutata. Funziona, comunque, ma, secondo me, i Type 0 Negative, non sono mai stati altro che dei buoni cloni dei Black Sabbath. Mi fa molta più tristezza la fine di Metal Shock che non la fine dei Negativi. Opinione personale… chi si contenta di questo, goda pure.
"Mi piace""Mi piace"
Uno dei dischi più poetici e maledetti di sempre, l’amore che provo per questo gruppo ed in particolare per il suo frontman è qualcosa di inspiegabile a parole. Grande recensione, Matteo, davvero bellissima.
"Mi piace""Mi piace"
bellissimo articolo, come sempre
"Mi piace""Mi piace"
Pingback: Blog Fire Death: le playlist 2016 dei tizi di Metal Skunk | Metal Skunk
Pingback: Avere vent’anni: dicembre 1997 | Metal Skunk