GOJIRA – Magma

gojira_magmaI Gojira non mi hanno mai preso particolarmente ma comprendo come e perché tanta gente ne vada matta. Un po’ l’approccio che ho nei confronti dei Tool, per citare un nome al cui pubblico i francesi, col tempo, hanno finito per strizzare l’occhio in maniera più o meno volontaria. In una dolorosa analogia con 10,000 Days (al quale, dieci anni dopo, Maynard Keenan si starebbe apprestando a dare un seguito), quest’ultimo Magma reca le cicatrici emotive successive al decesso della madre dei fratelli Duplantier, il frontman Joe e il batterista Mario. I dischi che derivano, sia pure in parte, dall’elaborazione di un lutto costituiscono un filone a parte allo stesso modo dei cosiddetti divorce album e valutarli con freddezza risulta spesso difficile. Leggendo qua e là sull’internet, Magma sembra aver deluso molti fan, in particolare – suppongo – quelli maggiormente legati alla componente progressive dei transalpini. De gustibus. Volendo tirare in ballo un altro parallelismo di quelli che garbano tanto a noi scribacchini, è grossomodo lo stesso discorso dei Mastodon, che avevo mollato all’epoca di Blood Mountain e avevo riabbracciato festante con The Hunter, i cui singoloni piacioni avevano fatto scappare a gambe levate chi invece aveva amato Crack The Skye. Certo, stiamo parlando di due formazioni distantissime per suono, retroterra e intenti ma, in entrambi i casi, l’elaborazione di una formula sempre più ricercata e pretenziosa è stata interrotta bruscamente dall’approdo a un genere codificato. Se gli americani, quindi, oggi sono diventati un gruppo stoner, sia pure molto sui generis, i Gojira di Magma sono, di fatto, una band post-hardcore.

Da tempo purgati delle residue scorie death metal, i Gojira questa volta hanno lasciato per strada anche quell’anima djent che li aveva lanciati nel pantheon degli appassionati di chitarre a trentasei corde con compressione quantica. Se nel precedente L’Enfant Sauvage (che mi aveva annoiato a morte), l’influenza dei Meshuggah si era fatta, se possibile, ancora più presente, in Magma appare solo all’orizzonte, laddove lo spettro dei già citati Tool aleggia soprattutto nella scelta dei suoni. Addirittura il santino di Fredrik Thordendal nel portafogli parrebbe essere stato sostituito da quello di Steve Von Till. Silvera sembra scritta da uno degli innumerevoli (e, a volte, ottimi) emuli dei Neurosis che affollano la scena. Accordi secchi e cadenzati, un maggior uso della voce pulita, un lavoro di batteria mai così essenziale, un tono generale quasi dimesso. Paradossalmente, in brani come The Cell sono i richiami al sound che fu a risultare quasi fuori posto. Se il disco mi ha convinto solo in parte, non è quindi per il traumatico mutamento d’identità, anzi. Uno dei maggiori limiti dei Gojira, almeno per il sottoscritto che li ha sempre apprezzati fino a un certo punto, è quello che accomuna tutti i discepoli più o meno diretti dei Meshuggah e li distanzia dai loro summenzionati mentori. Ovvero, per non usare troppi giri di parole, il non essere troppo portati a scrivere riff memorabili. Il che, se si sopperisce con cento cambi di tempo e quel senso dell’atmosfera che resta uno dei maggiori pregi del quartetto di Bayonne, non è un problema eccessivo ma, se si sceglie di comporre brani così scarni e diretti rispetto agli standard usuali, può diventarlo. Nondimeno, se è comprensibile lo shock subito da tanti vecchi estimatori, non escludo che con Magma i Gojira potrebbero guadagnarne di nuovi. (Ciccio Russo)

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