La mensa di Odino #10 – un bratwurst è per sempre

La mensa di Odino è la mia personale rubrica di multirecensioni ed è dedicata al dio Odino: il vegliardo, il viandante, l’uccisore di giganti. Per meglio glorificare il padre di colui che, risorto, rifonderà il mondo, questa volta parleremo solo di metal tradizionale teso a spingere le giovani menti verso il consumo di birra e la frequentazione di picnic in campagna.

Tanto per cominciare è giusto segnalare un nuovo lavoro degli HELLOWEEN, l’ep Burning Sun, disponibile sul mercato giapponese e contenente tre inediti. Non c’è nulla di particolarmente gustoso in realtà; il pezzo migliore è Another Shot Of Life, midtempo variegato, con un discreto tiro e uno strano assolo in wah-wah.  La titletrack in sé è una specie di tentativo di rifare Push, tentativo riuscito piuttosto male tranne che per quanto riguarda l’apertura melodica nel ritornello, più classicamente helloweeniana. Aspettiamo il full.

Poi ci sono i PARAGON, dei quali recensii Law Of The Blade esattamente dieci anni fa sostenendo fondamentalmente che distruggessero i palazzi. Sei dischi dopo, Force Of Destruction continua in quell’incessante opera. Qui siamo proprio nel METALLO TETESCO purissimo, roba da riff da trattoria, testi su catastrofi atmosferiche ed esplosioni, immobilismo concettuale al 1991, gare di rutti e festeggiamenti per la qualificazione in Europa League del Wolfsburg. I Paragon sono legati a doppio filo a Piet Sielck, la cui mano è riconoscibilissima nella produzione e negli arrangiamenti (?) del disco; come sempre ciò è garanzia di qualità, riuscendo zio Piet a tramutare in oro tutto ciò che tocca. Prendiamo ad esempio Tornado, esemplare di metallo tetesco di rara purezza, con la doppia cassa continua, i riffoni sgrattugiati alla Iron Savior, il cantante roco che gracchia robe tipo Tornado! The whirlwind of doom! , poi un assolo lunghissimo con le chitarre che fischiano e fanno casino come se non ci fosse un domani, una parte cantata col ritmo che si abbassa, poi riparte l’assolo seguito da una parte solo basso e batteria col cantante che ripete tutto convinto TORNADO! eccetera eccetera.

un ascoltatore-tipo dei Paragon

Se vi piace questo genere Force Of Destruction dev’essere per forza vostro, ci sono proprio i midtempo con le chitarre che fanno chuggachuggachugga e i ritornelli tutupà tutupà con le parole thunder, legacy, king e freedom sparate a caso; e ci sono pure Kai Hansen e Piet Sielck a cantare in Blood & Iron, uno svarione doomeggiante per far rifiatare il batterista. Se dovessi spiegare a qualcuno il vero spirito del metallo tetesco, gli farei sentire un disco tipo questo.

Tanto tempo fa, sul forum di una webzine metal, c’era un soggetto un po’ particolare che si firmava SANGIORGI DAVIDE. Sui trentacinque, vagamente progster, con una fissa per i Fates Warning e i vecchi Queensryche, SANGIORGI DAVIDE riusciva a straboccare di rancore verso certe band che lui proprio non sopportava. E, nel nominarle, ne storpiava i nomi; niente di particolarmente originale come concetto, però a volte usciva certe perle che ti rovinavano per sempre l’approccio col gruppo. Così per i Masterplan, il cui debutto fu salutato dal Sangiorgi con la bile alla bocca come una vergognosa operazione commerciale per alzare due soldi col minimo sforzo: per questo lui li chiamava Mastercard, e per me quelli saranno sempre i Mastercard.

L’apice fu causato dalla stizzosa insofferenza con cui l’Uomo guardava agli Stratovarius, che all’epoca raggiungevano peraltro i minimi storici con dischi tutti uguali, un chitarrista pazzo e copertine orrende: e ogni volta che il nostro eroe ne parlava, si riferiva a loro come gli STRATOMONOTONUS. E da allora,  grazie al Sangiorgi, loro per me saranno sempre gli Stratomonotonus. Vi racconto tutto questo non solo perché è giusto che ciò venga tramandato, ma anche perché è uscito un live degli STRATOVARIUS (ehm) chiamato Under Flaming Winter Skies: Live in Tampere 2011. È un doppio cd, venti tracce in totale, la scaletta è incentrata sugli ultimi dischi (quindi sballata), Kotipelto si comporta abbastanza bene e la produzione non è male. Eagleheart sembra quasi carina messa giù così. Un disco del genere interessa solo pochi malati come me e Luca Arioli, però sono riuscito a parlarvi del Sangiorgi.

Non si può dire che i KAMELOT non abbiano un proprio stile. Silverthorn è il loro decimo disco; del precedente avevo parlato qui, e il discorso riprende da quel punto. Perché Silverthorn, a parte il debutto di Tommy Karevik alla voce al posto di Roy Khan, è il classico disco dei Kamelot: raffinato, magnificamente suonato e prodotto, impeccabile e inattaccabile sotto ogni punto di vista, con ospiti di spicco alla voce. E non si può neanche imputare a Thomas Youngblood e soci di suonare musica datata: i Kamelot sono tra i pochissimi gruppi power ad essere sempre riusciti a rimanere al passo coi tempi pur continuando a suonare davvero power (e quindi non diventando altro come, ad esempio, Edguy e Nocturnal Rites). Però sono troppo pesanti da ascoltare. Questo volersi sempre mantenere troppo le righe, questo modo pomposo di enfatizzare l’interpretazione vocale, questa prosopopea che si sono portati dietro da quando suonavano prog metal, e che semplicemente nel power è fuori contesto: penso che il punto sia qui. I Kamelot spesso interpretano il power metal come se fosse prog e, se da una parte questo li rende peculiari, dall’altra rischia di renderli noiosi, alla lunga. Il nuovo cantante è eccezionale: imita Roy Khan (per quanto ciò possa essere possibile) e ne ricalca fisime, gigioneggiamenti e birignao, compresa la capacità di rendere pomposissima e melodrammatica qualsiasi cosa; caratteristica accresciuta durante le pestilenziali ballad strappamutande, uno dei punti deboli della band, durante le quali sembra di sentire un incrocio tra Julio Iglesias, le sigle dei drammoni napoletani con Mario Merola e LA TAUROMACHIA. È andata malino stavolta con gli ospiti: Amanda Somerville, Elize Ryd degli abominevoli Amaranthe e la nostra vecchia amica Alissa White-Gluz, della cui esistenza qui spieghiamo il senso. Le canzoni migliori sono le iniziali Ashes To Ashes e Sacrimony; di seguito il video ufficiale di questa, con la Ryd che fa l’angioletto e la White-Gluz che fa la cattivona.

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Welcome To The Theater degli svedesi REINXEED sembra uscito dagli anni d’oro del power metal. Era la seconda metà degli anni novanta, e sono usciti dischi bellissimi. Ovviamente, siccome il genere tirava, è uscita anche una gigantesca montagna di merda. Roba inconsistente, senza sentimento, con la batteria a frullatore e il cantante castrato, che incarnava perfettamente i peggiori stereotipi negativi  del genere. I Reinxeed sono così. È tutto standard.  La produzione è amatoriale, la batteria triggerata sembra un elettrodomestico e il cantante ricorda l’imitazione del tipo dei Kaledon. In certi momenti sembra la sagra dell’orgoglio omosessuale ciociaro. La mancanza di senso estetico (e di vergogna) dei ReinXeed è esplicato pure in questa foto, dopo la visione della quale scommetto che a nessuno di voi verrà mai in mente di ascoltare le funamboliche composizioni dei ReinXeed. Sorvoliamo sulla cover di Halloween perché è proprio tempo perso.

il churrasco è il modo inventato da Odino per farsi venerare dai brasiliani

È uscito anche un nuovo disco di ANDRE MATOS, il terzo della sua carriera da solista dopo Viper, Angra e Shaaman; però sinceramente sono restio a parlarne perché mi fa impressione il calo di voce che il suddetto ha avuto nel corso della sua carriera. Non ho mai sentito niente di simile, neanche in casi notoriamente limite come Chris Cornell. Ai tempi degli Angra letteralmente cinguettava, frivolo e barocco come l’usignolo di Giovan Battista Marino. Già dal primo disco degli Shaaman aveva iniziato a sporcare la sua voce, evitando note troppo alte e in generale adottando uno stile canoro diversissimo da quello di Angels Cry. La questione è andata via via peggiorando, e ora Matos è quasi irriconoscibile; ciò comunque non inficia più di tanto The Turn Of The Lights, che è un bel disco di raffinato heavy-power melodico con piccoli gioiellini come Course Of Life o la titletrack. Però, comunque, il calo di voce è impressionante. Come curiosità, l’edizione giapponese contiene la cover di I Don’t Believe In Love dei Queensryche e di Fake Plastic Trees dei Radiohead migliori (e qui nessuno si offenda, per carità). Che al dio Odino vengano sacrificati grassi vitelli fino al Ragnarok, o fratelli del vero metal. (barg)

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