HIGH ON FIRE – De Vermis Mysteriis (eOne Music)

Non sono proprio un lettore mucchiesco. Diciamo che, vista l’età e i gusti musicali, mi viene più facile leggere altre testate, seppur con una certa discontinuità. Perché, ovvio, a volte va benissimo l’avanguardia, l’informazione, il retro-cool e cose del genere, ma anche restare un po’ coi piedi per terra a fissare il vinile di Battle Hymns ha il suo bel peso psicologico, altroché. Ti riporta alle radici, che non sono mai o quasi radici comuni al retroterra del metallaro medio. No, sono proprio radici che impastano l’adolescenza, il mito binario ed occidentale della genesi mediante scissione del bene e del male e la nostalgia dei bei tempi andati.

Uno di quei dischi capaci di rimettermi in piedi di fronte allo sconfinato panorama della vita, è proprio un disco degli High On Fire, ed è per inciso uno di quei midcult che dimostra come anche dopo i famigerati Duemila si potesse ancora fare un minimo di rifondazione sottoculturale metallara. È il classico disco che, vuoi per l’ampio respiro concettuale della band stessa, vuoi per un’inaspettata ispirazione momentanea, è stato in grado di fornire solidità ai momenti artistici realmente effimeri che stiamo vivendo. Superati gli esordi della band di Matt Pike, fu proprio Blessed Black Wings a ridefinire il sound e la concezione radicalmente metal della band. Ci sarà chi crede il contrario, chi ritiene che gli esordi fossero vincenti e che l’esito motorheadiano e slayeriano (ma sarà vera poi ‘sta sintesi?) di un disco che guarda caso coincise con l’esplosione di un piccolo culto barbuto in casa Relapse fosse alla fine tutto grasso che colava ma niente di più. Ciliegie insapori su gloriose torte. Ma meglio avercene che no, diciamo.

Ecco, per farla breve, quel disco era pressoché perfetto perchè aveva: grandi canzoni, grandi filler (sì, grandi filler), grandi vibrazioni, bei bassi tonanti, un suono pazzescamente ruvido e, la più importante di tutte, Steve Albini. Quello che è venuto dopo francamente non è che mi avesse esaltato poi tanto, soprattutto quella mezza (ma solo mezza) delusione di Snakes For The Divine, ma che ci volete fare.

Ma oggi la band, diciamolo, un po’ il colpaccio lo tenta. Imbuchiamoci ai God City di Kurt Ballou, facciamo i ganzi con la produzione più cool del momento, massì. La verità però è proprio che il disco offre serie riflessioni sul rinnovato stato di salute della band, nonostante l’ormai precaria salute di Pike. Le chitarre si rifanno ruggenti, la batteria rombante e sempre più groovy (modello di riferimento: un Dave Grohl metallaro), l’ugola raschiatissima e la paranoia accantonata in favore di un ritorno all’attacco frontale. Ritorna la terra desolata vagheggiata nei viaggi lisergici di Matt, la sconquassante cavalcata di mille cavalli, cavalieri inscimmiati.

Era meglio quando Albini entrava in studio e posizionava qualche panoramico, magari. Ecco, l’idea che Kurt abbia iperprodotto un disco della band come manco suona uno dei Trap Them un po’ mi fa strano. Ma le canzoni vincono tutte le speculazioni possibili e la resa della band è maledettamente realistica, come in ogni benedetto (blessed) album della band, d’altronde. Filler anche qui, ma sfido io a trovare al giorno d’oggi un disco che non ne abbia. A questi livelli persino i Cannibal Corpse vanno a farsi benedire. Picco assoluto forse quella Fertile Green che ben ci restituisce l’immagine di una band che si sforza, picchia duro e suda come una cotenna.

Grande Matt, un uomo che fa ancora suonare la sua chitarra come si fosse tutti nel ’94. Ed io nel ’94 ero un bimbo, tipo.

Fatevi un regalo perché davvero questa volta non servono altre parole. (E non ho dovuto manco parlare degli Sleep, mi è andata bene).

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