Roadburn Festival 2013 – 18/20 aprile, Tilburg, Olanda

RB13Archiviate le perplessità della vigilia su quella che in alcuni punti era sembrata una line up un pochino scricchiolante, c’è da dire che il Roadburn si dimostra sempre essere un appuntamento imperdibile. Cosa pressoché inevitabile quando qualità suprema e perfezione organizzativa si mettono al servizio di Satana e dei suoi amplificatori fumanti. Una delle novità più rilevanti dell’edizione 2013 è stata l’anticipo dell’orario di inizio alle due e mezza, in modo da poter permettere una maggiore durata dei set previsti; se l’intenzione è meritoria c‘è da dire che le giornate diventano però davvero pesantissime, soprattutto se, come me e il Conte Max, si presenzia al festival con mentalità stakanovista con l’imperativo di vedere quante più band possibile con rigore e disciplina di tipo militare.

Day1
Consumata la prima birra di rito al Polly Maggoo, si cerca un minimo di assestamento, la voglia di sondare il terreno ed ‘esserci’ fa girare un po’ a caso tra la desolazione assortita dei Pallbearer e la modernità degli Atlas Moth. La prima considerazione di un qualche rilievo riguarda l’immutata capacità dell’heavy metal di attrarre a sé le persone più esteticamente sgradevoli: il riferimento è ai Pilgrim (al cantante in modo particolare), che con il loro doom classico ed evocativo regalano il primo vero sussulto della tre giorni. La miccia è accesa, e finito il concerto ci ritroviamo immediatamente a cospetto dei Gravetemple, nuovo progetto di O’Malley con altri collaboratori del giro dei Sunn O))): si tratta sempre della stessa solfa a base di feedback e rumoracci (spogliata però di tutto il baraccone semi religioso), onestamente abbastanza inutili. Il tempo di un giro al merchandise e si entra davvero nel vivo della questione, ossia gli High On Fire alle prese con la riproposizione integrale di The Art Of Self Defense, loro primo album recentemente ristampato in versione strafica da quei gaggi della Southern Lord.

idolo

Non entro (per ora) nel dibattito suscitato qualche tempo fa dell’esimio Nunzio Lamonaca su quale sia la faccia migliore di questa band, mi limito a dire che l’album e il set sono eccezionali, e Fireface poi è uno dei miei brani in assoluto preferiti del trio. Finito l’album c’è spazio per un altro paio di pezzi tra cui una cover di The Usurper dei Celtic Frost (UH!) che Pike, uomo dai gusti raffinati quale è, definisce uno dei suoi gruppi preferiti. Si riaccendono le luci ma mio fratello (decisamente posseduto) mi trascina di forza nella batcave per assistere allo show dei sanfrancescani Castle, ottimi autori di una sorta di speed metal esoterico. Dopo i Primordial per il finale ci si affida ai classici, che nello specifico sono una combriccola di post hippies macilenti di una qualche estrazione Hawkwind, si fanno chiamare Psychedelic Warlords e suonano tutto Space Ritual da capo a piedi. Qualche dubbio legittimo sulla natura dell’operazione ma il risultato è assai piacevole, cosa pressoché ovvia se ti cimenti con uno di migliori live album di sempre. Ci sta pure un tizio vestito con cinturone e occhiali da aviatore che recita gli spoken word di Calvert e Moorcock; il suddetto poeta cosmico ha una vaga somiglianza con Renato Zero e ogni volta che mette piede sul palco io e mio fratello ci scompisciamo dalle risate invocando a gran voce tutti i grandi classici del re dei sorcini quali Il Carrozzone, Mi Vendo, Il Triangolo e via dicendo. È quasi l’una e mezza e ci mettiamo in macchina alla ricerca dello spettrale hotel simil-shining nel quale alloggiamo. 

Day 2
The Electric Acid OrgyLa giornata del venerdì presenta un programma che gira intorno a pochi ma ben definiti concetti: droga, Satana, donne nude. Jus Osborn ha messo assieme il tutto e lo ha chiamato The Electric Acid Orgy. Tanto vale dirlo subito, si tratta di una delle cose migliori a cui abbia mai assistito. Ma andiamo con ordine, si comincia ancora una volta prestissimo con i Dream Death che però non è che mi prendano chissà quanto, va molto meglio con i Witch Mountain, che nonostante la cantante gnappetta dal fare operistico hanno dei buoni pezzi e propongono un concerto a tratti piuttosto coinvolgente. Concluso questo, si comincia a fare davvero sul serio; il main stage si riempie all’inverosimile per la performance degli Uncle Acid & The Deabeats, insieme a gli headliner Electric Wizard sarà il concerto caratterizzato dalla maggiore presenza di pubblico di tutti i tre giorni. Fino a un anno e mezzo fa si autoproducevano gli album ed erano dei semi sconosciuti, poi è arrivato Lee Dorrian… Oggi tutti li conoscono da secoli ma nessuno sa bene che faccia abbiano e tantomeno li ha mai visti dal vivo. Il concerto parte un po’ imballato da tutte e due le parti, il pubblico bloccato a guardare questo ignoto oggetto delle meraviglie, la band guardinga e verosimilmente preda di una qualche forma di stage fright. Lo show decolla, ampio spazio ai brani del nuovo album (ci sarà bisogno di parlarne a parte perché veramente bellissimo). Verso la fine tutto diventa iper intenso, l’apice è toccato con Valley Of The Dolls al cui andamento straniante si accompagna un video collage che tocca tutti i temi cari al metallaro esoterico: i risvolti di sangue della summer of love, Sharon Tate, Charles Manson, il reverendo Jim Jones e il massacro di Jonestown, Altamont… Altamente suggestivo, assolutamente stupendo. Un po’ di meritato relax ed è tempo per i The Pretty Things. Per questi residuati bellici dell’era dell’LSD (coadiuvati ovviante da un paio di nuove leve), figli di un’epoca di amore, fiori e roba così, trovarsi di fronte a un’udienza tutta teschi e caproni poteva essere difficoltoso. Non era per nulla scontato che il pubblico gli presentasse un accoglienza così calorosa ma i metallari, si sa, in fondo sono brave persone. Molti i brani dai primi album, inclusa ovviamente la strepitosa S.F. Sorrow, ennesimo highlight del festival. Eccezionali, punto e basta. La fame si fa sentire, la voglia di cibo fa commettere un grossolano errore ai fratelli corna che arrivano allo show degli Electric Wizard con un po’di ritardo, trovandosi così a sgomitare nel carnaio con il popolino. In apertura subito Return Trip, il brano perfetto, capolavoro di pesantezza, nichilismo e negatività. La scaletta alterna la prima e l’ultima produzione, tralasciando del tutto la parte mediana della discografia. Legalise Drugs & Murder, è lo slogan elettorale che scioglierebbe in maniera definitiva i miei dubbi di voto. Finalone tutto dedicato all’album di Satana con il bong in mano con Dopethone e Funeralopolis: la band si sbraga, tutto affonda nel caos più puro, una cagnara infernale, stilisticamente opinabile, ma in tutto e per tutto funzionale. Collasso, implosione, trionfo del feedback e corna al cielo. Imbattibili. Se siete della scuola del suonano male secondo me dovete andare a leggere il blog dei Dream Theater e farvi le pippe davanti allo specchio. Fine polemica. Il folle programma a questo punto prevedeva i Goat, ma il Patronaat è strapieno, la fila per entrare è lunghissima, impossibile entrare. È evidente che dentro sia il panico e i video dei giorni successivi lo confermano, peccato ma non poteva andare diversamente. World Music è bellissimo, va ribadito. Satan's SatyrsL’alternativa sono i Satan’s Satyrs nuova sensazione votata al caos il cui motto DEATH TO FALSE NOISE la dice lunga sui loro meschini intenti. Una sorta di Blue Cheer ingrezziti su un immaginario nazi porno. Tiro eccezionale presenza scenica non indifferente regalano un esibizione che non si scorderà facilmente, l’ennesima soddisfazione che la green room ci ha donato nel corso degli anni. Ora basta, si va a nanna. L’acufene ancora una volta ringrazia.

Day 3
Il giorno numero tre era sulla carta per me il meno interessante, anche se probabilmente il problema è solo mio, dato che vedo parecchie cose, tipo Alcest e Cult Of Luna, molto apprezzate dagli altri metal skunkers. Il primo appuntamento della giornata è l’ennesimo gruppo simil-sabbath di cui ricordo solo fossero abbastanza inutili, poi forse un qualche altro gruppo black metal (Ruins Of Beverast?) che pure mi lascia abbastanza indifferente. Si cambia positivamente registro con gli ottimi Wo Fat, stoner texani dal groove kyussiano, cazzari nell’aspetto ma persone serie quando si tratta di surriscaldare gli ampli, una mezza figata. A fine concerto vado a comprare l’album The Black Code (Small Stone, 2012). Finito questo, mi fiondo a vedere gli En~Graved, nuova band del maestro del riff Victor Griffin coadiuvato da vari tizi tra cui l’onnipresente Guy Pinhas (Beaver, Goatsnake, Obsessed). Approccio molto classico, li ascolto un po’ distrattamente perché sono già con la testa al secondo show degli High On Fire; al contrario di quanto proposto due giorni prima si tratta di un set di tipo tradizionale in cui viene presentata più o meno la scaletta tipica dei loro concerti odierni. Se il primo era stato ottimo, questa seconda prova è assolutamente devastante. Un attacco sonoro di una violenza belluina, che chiude un po’ la discussione di quale sia oggi la dimensione naturale di questa band. Matt Pike è un personaggio enorme: oltremodo ruvido, invasato, sostanzialmente sgradevole. Un esempio da imitare. Premio violenza gratuita va alla spettacolare Fertile Green e Fury Whip ma anche a tutto il resto (Eyes and Teeth, Snakes For the Divine), annichilenti. Godflesh

Volendo evitare di rimanere fuori come la sera prima ci si presenta con buon anticipo all’Het Patronaat per assistere alla performance degli Elder, una scelta corretta in primo luogo perché la sala diverrà presto inavvicinabile e ancor più per lo spettacolo fantastico a cui abbiamo avuto modo di assistere. La band è presa benissimo e ci tiene a farlo sapere, ci raccontano di venire dal buco del culo del Massachusetts, di essere per la prima volta in Europa , che stasera suonano al Roadburn (cosa che già avevo capito) e che questi sono i più bei giorni della loro vita. Io, dal canto mio, l’unica cosa razionale che riesco a pensare è “mortacci vostra, nella prossima vita lo faccio anche io”. C’è ancora tempo per un pezzetto di Godflesh, piuttosto bello peraltro (anche se non sono proprio roba mia). Si decide di chiudere con le glorie locali Asphyx, anche se in realtà non sto più in piedi. Al terzo pezzo ci si butta in galleria dove c’è una sorta di area lounge che è praticamente un cimitero di metallari tra lo svenuto e il dormiente; c’era pure un tipo che faceva headbanging nel sonno. Spossato come un bimbo che ha passato tutto il pomeriggio a scorrazzare al parco mi abbiocco dolcemente con il death metal nelle orecchie, ad un certo punto mio fratello mi fa “vabbè ma se dobbiamo dormire allora possiamo anche farlo in albergo”, in teoria ha ragione ma ho voglia di godermi qualche altro minuto di questo tepore infantile. Non so neanche come, mi ritrovo in macchina con la radio che passa Wind Of Change; il Roadburn edizione 2013 si chiude con Klaus Meine che mi fischietta nelle orecchie. Difficile pensare di non essere presenti anche il prossimo anno. (Stefano Greco)

(… E se siete cultisti di stretta osservanza potete ripassarvi i report delle edizioni 2011 e 2012)

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