Avere vent’anni: KROKUS – Rock the Block

I Krokus, dei quali qui abbiamo parlato solo marginalmente, sono il gruppo svizzero dalla storia più longeva e sono stati fra i grandi divulgatori dello stile AC/DC, tanto da essere accusati fin dalla loro nascita di plagio, sia per la musica che per la voce. Furono molto seguiti e anche oggi hanno un certo numero di estimatori. Hanno una storia lunga ormai cinquant’anni, per cui hanno avuto diversi periodi: esordio e gloria negli anni Ottanta, un primo scioglimento nel 1988, una rinascita negli anni Novanta con sconvolgimenti di formazione e di suono, una seconda partenza nei Duemila con il ritorno di vecchi membri e allo stile delle origini, qualche frenata, poi qualche altro disco negli anni Dieci (fra cui uno di cover), accompagnato da un’attività live abbastanza vivace. Sembrava si volessero fermare nel 2019 con un concerto di addio, che fu anche pubblicato due anni fa, ma in realtà non hanno mai smesso di fare tour e sembra che per il momento non si fermeranno, per lo meno dal vivo. Nonostante questa pregevole attività, lunga e operosa, i Krokus hanno sempre avuto il grosso problema di non essere musicalmente incisivi.
Rock the Block, uscito a gennaio del 2003, rappresentò proprio il disco della rifondazione e del ritorno alle origini: riprese l’hard’n’heavy alla AC/DC e fu prodotto dai membri del gruppo, che evidentemente vollero riprendersi in mano la situazione e vedere se potessero ritornare ai vecchi fasti, come hanno fatto e stanno facendo molti altri veterani. Leggendo i dati di vendita, l’album guadagnò il disco di platino e ottenne anche il primo posto nelle classifiche svizzere. Tanto di cappello ai Krokus, ma, se vi devo dire che io mi ricordi di questa uscita a suo tempo, vi direi una grossa balla. È un disco che sembra la colonna sonora dei momenti da evidenziare di qualche telefilm, che ne so, Dawson’s Creek, quando qualche adolescente decide di migliorare la sua vita e comincia a dipingere la staccionata della sua villetta, oppure quando le ragazze decidono di preparare una festa a sorpresa per qualcuno, momenti così.
È una musica che al primo ascolto è piacevole, ma che si fatica molto a ricordare perché ha pochissima consistenza. Tra l’altro, non ricordo di nessuno che ascolti volontariamente i Krokus e tantomeno Rock the Block, nemmeno fra i coltissimi colleghi di redazione. Diciamolo con altre parole: questo disco non è brutto, ma non lascia nulla di significativo a chi ascolta. Le canzoni sono tutte semplicissime, le idee su cui si basano sono anche gradevoli, tuttavia non si trovano riff su cui scapocciare, non c’è atmosfera, non ci sono idee particolari. Una cosa positiva è la produzione: i suoni sono belli, gli strumenti ben separati, tutto è decisamente al suo posto. Evidentemente i cinque svizzeri avevano pensato più all’estetica dell’album che al materiale sonoro e, data la loro onoratissima carriera, li si può anche capire e concordare con loro. Un disco, quindi, che può essere usato come musica di sottofondo, per lavorare, per cucinare, per guidare, ma non per essere ascoltato troppo attentamente, altrimenti lo si spegne e lo si cambia. (Stefano Mazza)
L’unico disco veramente significativo dei Krokus è “Headhunter”, che infatti è prodotto da Tom Allom e occhieggia non poco ai Judas Priest. Concordo con la tesi di fondo: gruppo dal suono gradevole ma le cui canzoni non riescono proprio a farsi ricordare.
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